Svegliarsi fu una sorpresa per Nerra. Sbatté le palpebre per aprire gli occhi e si accorse che poteva ancora respirare; il suo corpo non minacciava di consumarla. Si sedette e la seconda sorpresa fu il letto sul quale giaceva. Era una struttura di pietra, coperta di lenzuola, in quella che sembrava una lunga camerata di letti simili.
Su ciascuno di quei letti, giaceva una figura, la maggior parte di esse gemeva, molte altre erano invece così immobili che sembrava fossero a pochi respiri dalla morte. Nerra avvertì l’odore del sudore e un tipo di calore che sembrava radicato nelle sue ossa. Le figure indossavano una varietà di indumenti, come fossero state portate lì da ogni angolo del mondo ma, in qua e in là, scorse dei frammenti di pelle nuda, macchiati di nero, con delle linee simili a squame…
Erano come lei.
Si guardò attorno brusca, cercando di dare un senso a tutto ciò. Quando era svenuta, c’erano stati solo la foresta e il drago…
“Siete sveglia.”
L’uomo in piedi accanto alla porta fu la terza sorpresa. Aveva una lunga barba arricciata, alla quale sembrava avere intrecciato dei gusci, ciascuno con un segno diverso dipinto sopra. Anche i suoi capelli grigi erano lunghi, gli cadevano sulle spalle. Indossava una tunica e dei calzoncini sfilacciati qua e là per l’uso eccessivo. Era alto e dalle spalle ampie, con tratti che sembravano consumati dagli agenti atmosferici e rigati dalla preoccupazione.
“Chi… chi siete voi?” chiese Nerra, alzandosi. “Dove mi trovo?”
“Siete dove dovete essere, nell’ultimo rifugio per coloro che hanno la malattia del drago,” rispose l’uomo e Nerra si imbronciò; nel Regno del Nord la chiamavano la malattia a squame. Significava che non era più nel Regno del Nord?
“Io… Mi sento…” esordì Nerra. “Io stavo morendo.”
“Eravate morta,” concordò l’uomo, con una voce che sembrava troppo calma per quella rivelazione. “Ma noi abbiamo dei metodi per stabilizzare la malattia, per un periodo.”
“Ma è incredibile,” replicò Nerra. “Se la gente lo sapesse… mio padre è…”
“So chi siete, Principessa Nerra,” la interruppe l’uomo. “So che siete stata esiliata per la vostra condizione, ma qui siete al sicuro. Questo è un luogo dove tutti coloro che hanno la malattia possono vivere in pace i giorni da umani che li restano. Qui facciamo tutto il possibile per prolungare un poco quei giorni.”
Nerra si imbronciò a quell’affermazione. “Non mi avete ancora detto chi siete.”
“Sono Kleos,” disse l’uomo. “Il custode di questo posto. Vi ho vista arrivare ed è molto raro che qualcuno venga portato qui direttamente da un drago.”
Raro, ma a quanto pareva non così tanto da causare shock nell’uomo che aveva davanti.
“State parlando come se aveste già visto dei draghi prima,” disse Nerra. “Dove ci troviamo di preciso?”
“Venite,” rispose. “Fareste meglio a vederlo coi vostri occhi.”
Le fece strada fuori dalla camerata, verso un ampio spazio aperto che sembrava quasi un villaggio. Le persone lavoravano lì, coltivando piccoli orti o trasportando l’acqua. Tutti e ognuno parevano avere l’intreccio di squame in un qualche punto del loro corpo.
La terra attorno al villaggio era rocciosa, risaliva pendici che conducevano alla bocca di quello che sembrava un vulcano. Altre formazioni rocciose giacevano sparse nel basalto, scure e angolari, come cresciute dietro alle eruzioni del vulcano. C’erano degli alberi su alcune sezioni della pendice, sbucavano dal terreno scuro; mentre in lontananza il suolo precipitava nel mare circostante, rendendo l’intero luogo un’isola. Un molo più giù suggeriva come la maggior parte delle persone raggiungeva il posto.
Fu ciò che giaceva al di là che attirò l’attenzione di Nerra, però. Così lontana che era a malapena visibile all’orizzonte, scorse una costa molto più ampia di quella dell’isola, con vulcani che si ergevano sul panorama per conferire allo scenario un aspetto seghettato, dentato. Sopra ai vulcani, qua e là, vide dei punti circolari. Le ci volle un momento per realizzare quanto dovevano essere grandi, e fu solo allora che capì cosa erano: draghi.
“Quella è Sarras,” disse Nerra scioccata. Non aveva mai visto il terzo continente, ma quell’ambiente non poteva essere nient’altro. Se era vero però, significava che il suo drago l’aveva trasportata per mezzo oceano. “Siamo a Sarras.”
“Non proprio,” intervenne Kleos, facendo cenno al piccolo villaggio attorno a loro. “Questa è Haven. La nostra isola giace un poco distaccata dagli orrori di… quel posto.”
“Quali orrori?” chiese Nerra.
Kleos scosse la testa. “Questo non è un luogo per quelle cose. Questo è un luogo di pace, dove coloro che sono affetti dalla malattia possono vivere i loro giorni e incontrare una morte garbata.”
“Una…” Nerra scosse la testa a quel pensiero. Avrebbe dovuto restare lì seduta ad aspettare di morire? “Cos’è questo posto? Una prigione? Dovrei restare qui in cattività?”
“Questo è un luogo di rifugio,” replicò Kleos. “Dove coloro che hanno la malattia del drago possono essere al sicuro dal mondo attorno a loro, e il mondo può essere al sicuro da loro.”
“Questa è la seconda volta che la chiamate così,” sottolineò Nerra. “È per le squame?”
“È per ciò che diventano le persone con la malattia,” rispose Kleos e fece una pausa per un momento. “Io… Io potrei mostrarvelo, ma sarebbe meglio di no. Vivreste più in pace senza sapere cosa vi aspetta.”
Nerra non esitò. “Mostratemelo.”
Nessun altro era stato capace di mostrarle davvero dove l’avrebbe condotta quella malattia. Il dottore glielo aveva detto, ma non era la stessa cosa, neanche ci si avvicinava; doveva vederlo coi suoi occhi. Seguì Kleos che le fece strada verso un altro punto del villaggio, verso un edificio in pietra la cui porta pareva più massiccia delle altre. Estrasse una chiave e la aprì.
“Dobbiamo fare attenzione qui dentro,” la avvisò. “Quelli che stanno qui… hanno poco di umano.”
“Ma avete detto che c’erano dei modi per aiutare…” affermò Nerra.
“Vi sono,” concordò Kleos. “Ma non lasciatevi adescare da false speranze, Principessa. Non vi è cura. Prima o poi, a prescindere da tutto ciò che faccio, si arriva a questo.”
Fece un passo indietro per permetterle di entrare perché potesse vedere. La costruzione era ombrosa all’interno, ma l’oscurità era attraversata dai pianti e dai lamenti di coloro che la popolavano. Non c’era niente di umano in quel suono, però.
E di certo neanche nella creatura che le si sollevò davanti. Era più robusta di un uomo, con squamose mani artigliate, denti che parevano potersi immergere nella carne e strapparla via, e tratti che si erano deformati in una specie di muso da lucertola. Il suo corpo era massiccio e malfatto, i muscoli parevano crescerle sotto alla pelle senza logica né armonia alcuna. Aveva gli occhi dell’essere umano, ma privati di qualsiasi traccia di umanità; ospitavano solo rabbia, dolore e fame. Non era più un essere umano, ma non era neanche un drago; era qualcosa che stava a metà, bloccato, incompleto, deformato dalla sua fisionomia precedente ma non ancora tramutato nella successiva.
Balzò in avanti andandole addosso; e Nerra fu troppo lenta per schivarlo in quel momento. La massa della creatura era sopra di lei adesso, la sbatteva a terra e la osservava dall’alto minacciosa. Alzò gli artigli, pronta a colpire; e la principessa era ormai certa che Kleos l’avesse portata lì solo per farla morire, per delle ragioni che non riusciva a contemplare.
L’uomo intervenne invece; la raggiunse con fra le mani una lama ondulata che sembrava prodotta con qualche metallo scuro e lunga quanto l’avambraccio di Nerra. La usò per affondare un colpo, prendendo la creatura dritta in petto e facendola stridere in un pianto animale. Cadde all’indietro, con gli artigli alzati come per scongiurare altri tagli, ma Kleos stava già avanzando.
“Mi dispiace,” disse, mentre Nerra si alzava. “Quando vi ho portata qui non sapevo che questa fosse già così avanti… È… è arrivato il momento per lui.”
“Era una persona?” chiese Nerra. Non riusciva a crederci, non voleva crederci, perché… quello significava che anche lei sarebbe finita così. “Non c’è niente che potete fare per aiutarlo?”
“Solo una cosa adesso,” rispose Kleos e avanzò, seguendo la creatura. La sua espressione era dispiaciuta ma, nonostante ciò, non si tirò indietro dal cerchio di artigli della creatura-drago. Affondò brusco la sua lama, questa volta conficcandogliela sotto alla mascella e fino al cervello. Nerra udì la creatura emettere un sussulto che sembrava un misto di shock e sollievo; poi Kleos estrasse la lama pulita, lasciando cadere la bestia all’indietro sul pavimento.
Restò lì in piedi per qualche secondo. In profondità nel fabbricato, Nerra udiva dei ringhi che suggerivano che vi erano altre di quelle creature… quelle persone, erano lì.
“Aiutatemi a portarlo fuori,” disse Kleos. “Adesso ha trovato la pace e noi tratteremo il suo corpo con rispetto.”
Nerra non sapeva da dove iniziare, quindi afferrò le gambe della creatura, aiutando Kleos a sollevarla.
“Questa sarà…” esordì. “Io diventerò…”
“Diventerete come Matteus qui presente?” domandò Kleos e chinò la testa. “Alcuni non vivono così a lungo. La malattia del drago li fa a pezzi; ma sì, potreste diventare così.”
“E quando accadrà, mi ucciderete?” gli chiese.
Il custode annuì. “Vi darò la pace quando non sarà più rimasto niente in voi che la conosce.”
Nerra era davvero a terra adesso. Il suo drago l’aveva portata lì, l’aveva salvata, eppure adesso… adesso sembrava che l’unica cosa per cui l’aveva messa in salvo era la morte.
Lenore si augurava la morte mentre era seduta sul cavallo, con le mani legate davanti a sé e la presa di Ethir attorno alla vita a tenerla salda sul posto. Attorno a loro, gli altri Taciturni trottavano; i cavalli avanzavano in una fila quasi silenziosa e coloro che li guidavano lo facevano con le mani sullo strano assortimento di armi che portavano.
Inizialmente aveva sperato di fuggire, ma i Taciturni le avevano dimostrato già due volte che non aveva modo di scappare da loro. L’avevano catturata senza difficoltà, imprigionandola nella locanda e acciuffandola di nuovo senza problemi quando aveva tentato la fuga. Non aveva via di scampo.
Aveva poi sperato di essere salvata. Lenore era stata certa che sarebbe accaduto, grazie ai Cavalieri dello Sperone che cavalcavano all’orizzonte, o a Rodry, o persino a Vars insieme agli uomini che avrebbero dovuto proteggerla. Lì, all’aperto, non potevano abbattere quei dodici e sconfiggerli? Non potevano salvarla?
Tuttavia, a ogni lega che passava, quelle speranze si affievolivano; a ogni passo dei cavalli, era più vicina ai ponti e più lontana da qualsiasi aiuto potesse ricevere. Lenore riusciva già a scorgere il più ampio dei ponti in lontananza, la sua campata si allungava sullo Slate, con un metro dopo l’altro di legno scuro.
C’erano delle guardie all’estremità del ponte, forse una dozzina, ma a mano a mano che Lenore e i Taciturni procedevano, sapeva che non avrebbero potuto fermare una forza come quella. Quelle guardie potevano fermare i contrabbandieri o buttare giù il ponte in caso di invasione, proteggendo il regno con la furia del fiume, ma non erano abbastanza numerose da impedire che venisse portata a sud e non si aspettavano certo di dover combattere una forza proveniente da nord. La maggior parte di quegli uomini non stava neanche guardando dalla sua parte, mentre veniva scortata dai Taciturni; al contrario, erano rivolti verso il fiume, per assicurarsi che non arrivassero minacce dall’altro lato.
Vide alcuni di loro voltarsi al rumore dei cavalli che si avvicinavano, ma era troppo tardi. Il primo dei Taciturni stava già attaccando; abbatté la prima guardia con la spada, affondò il coltello in un’altra. Si scagliarono sulle sentinelle e non fu neanche un combattimento vero e proprio. La maggior parte degli uomini laggiù non riuscì neanche a estrarre la spada e, di quelli che lo fecero, quasi tutti morirono senza neanche arrivare a usarla. Uno azzardò un colpo goffo verso uno dei Taciturni, ma la pura e semplice verità era che i sorveglianti dei ponti non erano i guerrieri più brillanti del regno, ma solo uomini addestrati per stare lì fermi in eterno, a gestire i traffici fra i due lati del ponte. L’ultima guardia morì tanto in fretta quanto le altre, uno spruzzo di sangue le uscì dalla gola mentre uno dei Taciturni gliela apriva con una spada.
I rapitori di Lenore si fermarono lì per un secondo o due, pulendo le loro armi prima di procedere e quello dette modo alla principessa di lanciare uno sguardo al di là del ponte, scorgendo quella costa lontana e gli alberi che giacevano oltre a un tratto di campo aperto. Quello era un terreno che non apparteneva a suo padre, un terreno dal quale non poteva immaginare che qualcuno l’avrebbe riportata indietro.
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