“Quasi sessant’anni fa, John Fitzgerald Kennedy è stato eletto presidente. Il suo discorso inaugurale è uno dei più fantastici e citati mai tenuti. Tutti voi sapete che in quel discorso ci ha detto di chiederci non cosa il nostro paese può fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per il nostro paese. E sapete una cosa? C’è un’altra parte di quel discorso, meno conosciuta, che mi piace altrettanto. Sembra particolarmente appropriata agli eventi di oggi, e voglio lasciarvi con quelle parole. Ecco cos’ha detto Kennedy.”
Fece un respiro profondo, sentendo nella testa le pause che si era preso Kennedy. Voleva ripetere l’esatta formulazione.
“Facciamo sapere a ogni nazione,” disse, “che ci auguri il bene o il male… che pagheremo qualsiasi prezzo… ci addosseremo qualsiasi peso…”
Nella folla, l’esultanza era già cominciata. Lei agitò una mano, ma non servì. Avrebbero fatto così, e il suo lavoro adesso era andare incontro al gonfiarsi crescente della loro esplosione, in qualche modo prenderne le redini e portarlo fino al traguardo.
“Affronteremo qualsiasi avversità…” urlò.
“Sì!” urlò qualcuno, in qualche modo tagliando il rumore.
“Supporteremo qualsiasi amico,” disse Susan, e sollevò il pugno in aria. “E andremo contro ogni nemico… per assicurarci la sopravvivenza e il successo della libertà!”
La folla era salita in piedi. L’ovazione andò avanti.
“Questo promettiamo,” disse Susan. “E altro.” Fece un’altra pausa. “Grazie, amici. Grazie.”
* * *
L’interno dell’edificio le dava i brividi.
Susan si spostò per i corridoi con il suo contingente dei servizi segreti, Kat Lopez, e due assistenti che la seguivano. Il gruppo superò le porte dello Studio Ovale. Solo trovarsi lì su di lei aveva un effetto strano. Lo aveva già sentito, appena una settimana prima, quando per la prima volta le avevano fatto fare il giro della Casa Bianca rinnovata. C’era un che di surreale nella cosa.
Non era cambiato quasi niente. In parte si trattava di questo. Lo Studio Ovale sembrava lo stesso dell’ultima volta che l’aveva visto – il giorno in cui era stato attaccato e distrutto, il giorno in cui Thomas Hayes e più di trecento persone erano morte. Tre alte finestre, con le tende tirate, che ancora davano sul giardino delle rose. Vicino al centro dell’ufficio, si trovava un comodo salottino su di un lussuoso tappeto adornato con il sigillo del presidente. Persino la Resolute Desk – un dono vecchissimo del popolo britannico – era ancora lì, al suo solito posto.
Certo, non era la stessa scrivania. Era stata ricostruita a mano a partire dai disegni originali a un certo punto negli ultimi tre mesi in una falegnameria della campagna gallese. Ma era questo il punto per lei – tutto sembrava esattamente uguale. Era quasi come se il presidente Thomas Hayes – più alto di chiunque attorno a lui di almeno dieci, undici centimetri – potesse entrare in qualsiasi istante e rivolgerle il suo solito cipiglio.
Era traumatizzata? La innervosiva, quell’edificio?
Sapeva che avrebbe preferito vivere all’Osservatorio navale. Quella maestosa casa antica era stata casa sua negli ultimi cinque anni. Era luminosa, aperta, e ariosa. Lì si trovava a suo agio. In confronto la Casa Bianca – soprattutto la residenza – era scricchiolante, eccentrica, malinconica e piena di spifferi in inverno, con una pessima luce.
Era un posto grande, ma le stanze sembravano anguste. E c’era… qualcosa… in quel luogo. Sembrava di poter svoltare l’angolo e imbattersi in un fantasma. Un tempo pensava che sarebbe stato il fantasma di Lincoln o McKinley o persino Kennedy. Ma adesso sapeva che sarebbe stato Thomas Hayes.
Si sarebbe ritrasferita all’Osservatorio navale in un battito di ciglia – se solo non l’avesse ceduto. La sua nuova vicepresidente, Marybeth Horning, ci si sarebbe dovuta trasferire nei prossimi giorni. Sorrise quando pensò a Marybeth – la senatrice ultraliberale del Rhode Island – che il giorno dell’attentato a Mount Weather era in viaggio d’inchiesta sulle violazioni dei diritti civili in aziende agricole che producevano uova dell’Iowa. Marybeth era un’aizzatrice per i diritti dei lavoratori, quelli delle donne, dell’ambiente, per tutto ciò di cui importava a Susan.
Elevarla al ruolo di vicepresidente in realtà era stata un’idea di Kat Lopez. Era tutto perfetto – Marybeth era una chiara esponente così di sinistra che nessuno a destra avrebbe voluto vedere Susan uccisa. Si sarebbero trovati col loro peggior incubo come presidente. E sotto le nuove regole dei servizi segreti, Susan e Marybeth non si sarebbero mai trovate nello stesso luogo nello stesso momento per il resto del mandato di Susan – da qui l’assenza di Marybeth ai festeggiamenti di oggi. Era un vero peccato, perché a Susan Marybeth piaceva.
Susan sospirò e guardò ancora lo studio. La sua mente vagava. Ricordò il giorno dell’attentato. Lei e Thomas si erano allontanati ormai da un paio di anni. A Susan non era importato granché. Si stava divertendo a essere la vicepresidente, e David Halstram – il capo di gabinetto di Thomas – si assicurava che l’agenda di lei rimanesse piena di eventi lontani dal presidente.
Però quel giorno David le aveva chiesto di prendere un aereo per recarsi al fianco del presidente. Gli indici di gradimento di Thomas erano precipitati in una voragine, e il presidente della Camera aveva appena richiesto il suo impeachment. Era sotto assedio, tutto perché non voleva entrare in guerra con l’Iran. Certo, lo speaker era Bill Ryan, uno dei leader del colpo di stato, che in quel momento si trovava in una prigione federale, a prepararsi per essere trasferito nel braccio della morte.
Ricordò lei e Thomas esaminare una mappa del Medio Oriente proprio in quell’ufficio. Non parlavano di niente, chiacchieravano solo di questo o di quello. Era solo un’occasione per una foto, non un vero e proprio meeting strategico.
Improvvisamente, si erano precipitati dentro due uomini.
“FBI!” aveva urlato uno dei due. “Ho un messaggio importante per il presidente.”
Uno degli uomini era l’agente Luke Stone.
La sua vita era cambiata in un istante, e da allora non era più tornata normale. La sua vita precedente poteva anche non tornare mai più, rifletté. Il suo matrimonio era quasi stato distrutto dallo scandalo. Sua figlia era stata rapita. Susan era invecchiata di dieci anni in sei mesi, mentre resisteva a un attacco terroristico o politico dopo l’altro.
Adesso doveva affrontare il sonno in quella vecchia casa piena di spifferi, da sola. Avevano speso un miliardo di dollari per rinnovare quel posto, e lei lì non voleva viverci. Mmm. Avrebbe dovuto parlarne con Kat, o con qualcuno.
“Susan?”
Alzò lo sguardo. Era Kurt Kimball. La sua apparizione improvvisa la riportò di colpo alla realtà. Kurt era alto e ampio, con una testa tonda e liscia come una palla da biliardo. Gli occhi erano luminosi e attenti. Era il ritratto della vitalità e della salute a cinquantatré anni. Era una di quelle persone che pensavano che i cinquanta fossero i nuovi trenta. Finché non era diventata presidente, Susan era stata d’accordo con lui. Adesso non ne era così sicura. Era lei stessa a poco meno di mezzo secolo. Se le cose continuavano così, per quando ci fosse arrivata i cinquanta sarebbero stati i nuovi sessanta.
“Ciao di nuovo, Kurt.”
“Susan, c’è l’agente Stone. Ieri notte ha parlato con Don Morris, in Colorado. Pensa di avere un’informazione che vogliamo sentire. Non ci ho ancora parlato, ma i miei dicono che è rimasto coinvolto in un incidente quando stamattina presto è tornato a Washington.”
“Un incidente? Che significa?” Non suonava bene. Però, d’altronde, quando mai l’agente Stone non rimaneva coinvolto in un incidente?
“C’è stata una sparatoria a Georgetown. Due uomini in un furgone apparentemente hanno cercato di ucciderlo. Luke ne ha ucciso uno. L’altro è fuggito.”
Susan fissò Kurt. “La cosa è legata a Don Morris?”
Kurt scosse la testa. “Non lo sappiamo. Però è accaduto a due isolati dall’appartamento di Trudy Wellington. La Wellington è scomparsa, come sa, ma pare che Stone sia andato al suo appartamento non appena atterrato dopo la visita a Morris. È tutto molto… inusuale.”
Susan fece un respiro profondo. Stone le aveva salvato la vita più di una volta. Aveva salvato sua figlia dai rapitori. Aveva salvato infinite vite durante la crisi del virus Ebola, e durante la crisi con la Corea del Nord. Aveva fatto al mondo un favore e aveva assassinato il dittatore della Corea del Nord, mentre era lì. Era una risorsa inestimabile per l’amministrazione di Susan. Inoltre, era l’arma segreta di Susan. Ma era anche instabile, era violento, e sembrava farsi coinvolgere da cose da cui non si sarebbe dovuto far coinvolgere.
“Comunque,” disse Kurt. “Lo abbiamo qui, e deve fare rapporto. Penso che dovremmo fare subito il rodaggio della nuova sala operativa e chiamarlo.”
Susan annuì. Era quasi un sollievo aver qualcosa in cui affondare i denti. La sala operativa lì alla Casa Bianca era uno spazio dedicato, nulla in confronto alla sala conferenze adattata che avevano usato all’Osservatorio navale. Era un centro di comando totalmente rinnovato e aggiornato, con le ultime stregonerie in fatto di alta tecnologia. Avrebbe espanso tremendamente le loro capacità strategiche – o così le avevano detto.
L’unico problema? Era sottoterra, e a Susan piacevano le finestre.
“Dammi qualche momento per cambiarmi, okay?” Susan indicò l’elegante abito di marca unico nel suo genere che indossava. “Non so se questa cosa va bene per una riunione dell’intelligence.”
Kurt sorrise. Fece un po’ scena, e la squadrò dall’alto in basso.
“Na. Suvvia. Ha un aspetto magnifico. La gente resterà colpita – dritta dalla consacrazione e subito al lavoro.”
* * *
Luke scese in ascensore con una folla di gente in giacca e cravatta, giù alla sala operativa. Era stanco – aveva trascorso due ore parlando con i poliziotti di Washington, DC, poi si era fatto qualche ora di sonno intermittente. Si era perso completamente la cerimonia di consacrazione.
Cose come la ricostruzione della Casa Bianca e la sua riapertura non erano proprio nella sua testa. Aveva appena fatto caso al posto, o alle folle che facevano ooh e aah dappertutto. Era perso in una foresta di pensieri oscuri – su se stesso e la sua vita, su Becca e Gunner, e su Don Morris, le sue scelte e alla fine a cui era giunto. Luke aveva anche ucciso un uomo la notte precedente, e ancora non aveva idea del perché.
L’ascensore si aprì nella sala operativa a forma di uovo. Era più piccola e più angusta dell’ex sala conferenze che avevano usato all’Osservatorio navale. Era anche meno arrangiata, meno imbastita alla meglio. Quel luogo sembrava il modulo di comando di una nave spaziale di Hollywood. Era organizzato per il massimo uso dello spazio, con ampi schermi incassati nei muri ogni qualche metro, e uno schermo di proiezione gigantesco sul muro in fondo alla fine del tavolo. Tablet e microfoni a scomparsa sorgevano da slot che uscivano dal tavolo da conferenze – potevano essere rimessi all’interno del tavolo se il partecipante voleva usare un dispositivo proprio.
Ciascuna sfarzosa sedia in pelle al tavolo era occupata – per lo più da menti di mezz’età e sovrappeso. I posti lungo i muri erano pieni di giovani assistenti e assistenti persino più giovani, la maggior parte dei quali scriveva messaggi sui tablet, o parlava al telefono.
Susan Hopkins sedeva su una sedia al posto a capotavola più vicino della tavola oblunga. All’altro capo se ne stava in piedi Kurt Kimball, il consigliere per la sicurezza nazionale di Susan. I soliti sospetti, spaparanzati, occupavano i posti tra di loro.
Kurt notò Luke entrare e batté le grosse mani. Fece il suono di un pesante libro che veniva lasciato cadere su un pavimento di pietra. “Ordine, tutti quanti! In ordine, per favore.”
Il luogo si calmò. Qualche assistente continuò a parlare lungo la parete.
Kurt batté di nuovo le mani.
CLAP. CLAP.
Nella stanza si fece un silenzio di morte.
“Salve, Kurt,” disse Luke. “Mi piace il vostro nuovo centro di comando.”
Kurt annuì. “Agente Stone.”
Susan si voltò verso Luke e si strinsero le mani. La grossa mano di Luke ingoiava la sua, minuscola. “Signora presidente,” disse. “Bello rivederti.”
“Benvenuto, Luke,” disse. “Che cos’hai per noi?”
Guardò Kurt. “È pronto per il mio rapporto?”
Kurt si strinse nelle spalle. “È per questo che siamo qua. Se non fosse per lei, saremmo tutti di sopra a goderci i festeggiamenti.”
Luke annuì. Era stata una giornata lunga, ed era ancora presto. Voleva finire quella cosa e andarsene nella casa in campagna che una volta aveva condiviso con Becca. In quel momento era tutto troppo, e ciò che voleva di più era fare un pisolino. Dormire sul divano, e magari dopo, nel tardo pomeriggio, mettersi seduto fuori con un caffè a guardare il sole tramontare sull’acqua. Aveva molto a cui pensare, e molto da organizzare. Un’immagine di Gunner gli apparve nella mente.
Tutto gli occhi erano su di lui. Fece un respiro profondo. Ripeté quello che gli aveva detto Don. Dei terroristi islamici avrebbero rubato delle armi nucleari da una base aerea in Belgio.
Un uomo alto e massiccio dai capelli biondi alzò una mano. “Agente Stone?”
“Sì.”
“Haley Lawrence. Segretario della difesa.”
Luke lo sapeva. Ma fino a quel momento, se l’era dimenticato.
“Signor segretario,” disse. “Che cosa posso fare per lei?”
L’uomo gli rivolse un leggero sorriso, quasi una smorfia. “La prego di condividere con noi come pensa che Don Morris abbia ottenuto le sue informazioni. Si trova in un complesso federale di alta sicurezza, la sicurezza massima che abbiamo al momento, tenuto in isolamento nella sua cella ventitré ore al giorno, e non ha contatto diretto con nessuno eccetto le guardie.”
Luke sorrise. “Penso che questa sia una domanda a cui dovrebbero rispondere le guardie.”
Si sparsero per la stanza delle risate soffocate.
“Conosco Don Morris da molto tempo,” disse Luke. “Probabilmente è una delle persone più ingegnose in vita negli Stati Uniti in questo momento. Non ho dubbi che riceva delle informazioni, persino nella sua ubicazione corrente. Sono informazioni accurate? Non ne ho idea, e nemmeno lui. Non ha modo di confermarle, né di screditarle. Immagino che questo sia lavoro nostro.”
Rivolse a Kurt uno sguardo di traverso. “Questi sono tutti i dettagli che ho. Qualche idea?”
Kurt fece un attimo di pausa, poi annuì. “Certo. Sarà un po’ all’impronta, ma per lo più accurato. Ho pensato molto al Belgio negli ultimi anni, per ovvie ragioni.” Si voltò verso un’assistente che si trovava in piedi dietro di lui. “Amy, puoi darci una mappa del Belgio? Inserisci Molenbeek e Kleine Brogel, se non ti spiace.”
La giovane digitò sul tablet, mentre un altro assistente accendeva il monitor principale dietro a Kurt. Trascorse qualche secondo. Il monitor passò per alcune schermate di caricamento, poi mostrò una schermata blu. Ricominciò un basso mormorio.
Kurt guardò l’assistente. Lei gli fece un cenno col capo, e poi Kurt guardò la presidente.
“Susan, pronta?”
“Pronta quando lo sei tu.”
Sullo schermo dietro di lui apparve una mappa dell’Europa. Rapidamente zoomò per concentrarsi sull’Europa occidentale, e poi sul Belgio.
“Okay. Dietro di me vedete una mappa del Belgio. Ci sono due location in quel paese sulle quali voglio richiamare la vostra attenzione. La prima è la capitale, Bruxelles.”
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