Come sempre accade nella vita l’occasione giusta capitò improvvisa e inaspettata: arrivò l’amore che, in un istante, travolse tutto e tutti in un istante. In poco tempo mi ritrovai a percorrere una strada completamente diversa: sposato e con un figlio in arrivo. Cercai di allontanarmi dal mondo nel quale avevo vissuto fino a quel momento e decisi di andarmene dall’Italia per provare una nuova esperienza di vita. Andai a vivere a San Pietroburgo, una bellissima città russa, costruita da Pietro il Grande sul fiume Neva, che racchiudeva in se un mix di stili architettonici diversi, prevalentemente europeo nel centro città e tipicamente russo nella vasta periferia. Mia moglie, russa, mi facilitò in questa scelta e mi proiettò in una realtà in cui mi sentivo, finalmente, a mio agio. Ebbi la fortuna di trovare subito lavoro come insegnante di lingua italiana in una scuola non lontano dal piccolo appartamento che, ormai, dividevamo in tre. Mi sentivo fortunato e felice, come non lo ero mai stato in vita mia perché adesso, nel tempo libero, potevo anche dedicarmi alla scrittura di tutto quello che desideravo: romanzi, piccole storie, poesie. Potevo scrivere e fantasticare su tutto quello che mi passava per la testa e così, tutta quella passione che avevo dentro uscì prepotentemente e si animò su centinaia di fogli di carta.
Purtroppo, come tutte le cose belle, anche quell’esperienza finì velocemente a causa dei burrascosi e quotidiani conflitti coniugali. Fu con la fine del mio matrimonio che mi decisi a tornare in Italia, lasciare quel piccolo appartamento e rinunciare alla mia vita di padre affettuoso. Nel mio ultimo ricordo mi vedevo con le valigie in mano, pronto a partire, mentre stringendo tra le braccia mio figlio ancora piccolo, gli sussurravo dolcemente nell’orecchio: “Il tuo papà ti ama e un giorno tornerà qui a riprenderti, questa è una promessa”. Purtroppo, non fui in grado di mantenere quella promessa e il ricordo di quella scena continuava a perseguitarmi nonostante il trascorrere del tempo. Forse la mia permanenza prolungata a Minsk era figlia proprio di quelle scelte sbagliate, di quei sensi di colpa che ancora mi portavo dentro.
Guardai l’orologio e vidi che il tempo era trascorso velocemente: ormai erano già le otto di mattina e non avevo ancora acceso il computer. Dovevo rimettermi subito a lavoro perché avevo ancora tante cose in sospeso da finire. Prima di immergermi nella routine quotidiana pensai di prendermi ancora qualche minuto per leggere le ultime notizie e aprire qualche e-mail. Peraltro, solo recentemente ero riuscito a ottenere un importante incarico editoriale ed era di vitale importanza che riuscissi a portare a termine quel lavoro nei tempi concordati. Dovevo occuparmi della correzione della bozza sulla nuova riforma pensionistica, un lavoro lungo e noioso che avrebbe preso tutte le mie energie. Avevo comunque un grosso problema perché dovevo consegnare, entro la fine del mese, le bozze corrette per andare in stampa, ma fino a quel momento mi ero occupato di tutt’altro e avevo trascurato quel lavoro. Mi restavano solo pochi giorni per rispettare quel contratto e, adesso, diventava veramente urgente concentrarsi solo su quello, senza altre distrazioni o divagazioni.
Ero consapevole che, se non avessi consegnato il file entro la data stabilita, non avrei ricevuto alcun compenso, nemmeno un piccolo rimborso spese. Avevo un assoluto bisogno di quei soldi perché dovevo ancora pagare l’affitto della stanza. Ero già in ritardo di tre mensilità ma per fortuna Olga (così si chiamava la donna che mi aveva dato in affitto una camera del suo appartamento), quando mi vedeva triste e sconsolato, cercava di tirarmi su di morale, ripetendomi, nel suo incerto italiano:” Roberto, non preoccuparti per l’affitto, sono sicura che alla fine tutto si risolverà per il meglio”. Desideravo farmi perdonare per tutti quei ritardi che, ormai, stavano diventando una cattiva abitudine e pensai di invitarla fuori a cena o di comprarle dei fiori, di quelli che lei amava tanto: le rose rosse.
Olga era una donna dolce e gentile, aveva grandi occhi a mandorla che tradivano le sue origini asiatiche. Era nata in Uzbekistan, un’ex repubblica che un tempo apparteneva alla vecchia Unione Sovietica, ma ci teneva a puntualizzare che la sua mamma aveva origini russe e che, per metà, anche lei si sentiva russa. Aveva ormai superato la quarantina, ma la sua bellezza non era ancora del tutto sfiorita: si vedeva che amava tenersi in forma e aveva il viso e le mani curate, l’aspetto sempre in ordine.
Una sera che eravamo rimasti soli in casa, dopo averla vista particolarmente affranta e sconsolata, le chiesi se avesse avuto desiderio di raccontarmi la sua storia familiare. Mi disse che era stata sposata con uno straniero per oltre venti anni, un egiziano che aveva lavorato a Minsk come professore universitario e con il quale aveva avuto tre figli. Le prime due figlie ormai erano già grandi, rispettivamente di diciotto e quattordici anni, mentre l’ultimo figlio, il maschio, aveva appena compiuto undici anni. Il marito l’aveva lasciata ed era andato via da casa due anni prima del mio arrivo: diceva di sentirsi stanco di quella vita familiare, della monotonia di una città che, dopo tanti anni, ancora non riusciva a capire. In realtà non aveva mai sopportato lo stile di vita occidentale ostentato, in tutti quegli anni, dalla bella moglie bielorussa e sempre più spesso le aveva ripetuto che non si sentiva amato e rispettato. Poi, all’improvviso, aveva deciso di tornarsene al Cairo e di lavorare come consulente esterno per il Museo egizio, ma portò via con sé le due figlie più” grandi.
Olga, alla scoperta del rapimento delle figlie, dopo lo shock iniziale, aveva fatto di tutto per tentare di fermare il marito, ma nemmeno la denuncia alla polizia aveva sortito alcun effetto; alla fine si era dovuta arrendere, impotente di fronte ad una situazione che si era dimostrata più” grande e più forte di lei. Bastava parlarci insieme pochi minuti per capire che era una donna con una forte personalità. Olga mi confidò, candidamente, che si sentiva ancora fortunata ad avere con se’ il piccolo figlio maschio e avrebbe dedicato tutto il suo tempo e le sue energie per farlo crescere nello stile occidentale.
Il piccolo Amir aveva un viso rotondo e gioviale, con due occhi grandi, neri ed espressivi, un’energia infinita e un insaziabile appetito; spesso lo avevo sentito ripetere una curiosa frase in russo quando, rivolgendosi a Olga, le diceva: “Мама, я хочу есть” (Mamma voglio mangiare).
Olga, con pazienza, cercava di esaudire tutti i desideri del suo piccolo principe preparandogli ogni sorta di prelibatezza e, la sera, nonostante la stanchezza per il lungo e duro lavoro, si prodigava per aiutarlo a finire i compiti da portare il giorno dopo a scuola. Quando la mamma era assente mi divertivo a guardare Amir scorrazzare per casa insieme ai suoi amici del quartiere; si divertivano tutto il tempo tra televisione, playstation e giochi di lotta, dimenticandosi completamente di dedicarsi allo studio e mettendo a soqquadro tutto l’appartamento. Il piccolo Amir aveva una grande passione per la musica e dopo la scuola percorreva alcuni chilometri a piedi per arrivare al conservatorio, che frequentava tre volte la settimana, per perfezionare il suo talento musicale.
La mamma, con grandi sacrifici, era riuscita a comprargli un pianoforte usato, con cui Amir si divertiva a inventare nuove melodie. Quando lo sentiva suonare al pianoforte Olga piangeva di nascosto, ma erano lacrime di gioia perché, in quelle occasioni, vedeva il figlio felice. Mi faceva una grande tenerezza questo “piccolo principe”, (tale era l’origine araba del suo nome Amir), forse perché mi ricordava mio figlio che ormai non vedevo più da tanti anni. Per lui ero diventato come un padre e qualche volta mi chiedeva di uscire insieme in strada per giocare a palle di neve o per farsi spingere con lo slittino giù dalle piccole collinette di ghiaccio che, nella notte, si erano formate all’interno del cortile.
Mentre riflettevo sulla forza d’animo della mia padrona di casa, mi decisi ad aprire la posta elettronica e il mio sguardo fu immediatamente catturato dall’intestazione di un’e-mail che, nell’oggetto, riportava un nome e una stringata frase, “Massimo, il tuo vecchio amico”. Rimasi completamente sorpreso, ma quella frase non mi lasciava alcun dubbio – era proprio Massimo, il mio vecchio compagno di liceo. Quel nome mi riportava con la mente al passato, ai tempi in cui tutto sembrava possibile, quando, a sedici anni, pensavamo di avere il mondo e il futuro nelle nostre mani. Era trascorso tanto tempo dall’ultima volta che avevo avuto sue notizie e adesso mi chiedevo il motivo di quella sua e-mail e di come avesse fatto ad ottenere il mio indirizzo di posta elettronica.
Questo era un vero mistero.
Solo poche e fidate persone avevano il mio indirizzo e-mail e potevano contarsi sulle dita di una mano. Con il mio isolamento, la lontananza fisica, pensavo di riuscire a proteggermi da tutto e da tutti, invece ora mi sentivo nudo, senza più” alcuna difesa. Quell’email aveva percorso migliaia di chilometri e adesso si trovava lì, davanti a me, che dallo schermo del computer mi invitava ad aprirla, come se mi dicesse dolcemente “e dai, leggimi, non te ne pentirai”. Ma era proprio quest’aspetto che mi faceva più paura, come se il contenuto di quella lettera mi avrebbe potuto riportare indietro nel tempo per riaprire ferite che pensavo di avere già rimarginato. Ero tentato di cancellare quel file, poi mi prese la solita angoscia e mi sentii avvolto, improvvisamente, da quella mia tipica indecisione che era stata la sola costante sgradita della mia vita. Per fortuna la curiosità prese il sopravvento e mi affrettai ad aprirla, sperando che contenesse solo belle notizie in modo da poter affrontare il resto della giornata con qualche linea di entusiasmo in più.
Cercavo di contare gli anni che erano trascorsi dal nostro ultimo incontro: tanti, troppi per essere ricordati – pensai. Non potevo dimenticare la spensieratezza di quegli anni di scuola, i famosi anni “80, dove tutte le speranze erano ancora intatte e dove tutto sembrava potersi realizzare. Lessi voracemente il contenuto di quell’e-mail: era proprio Massimo, che con il suo stile inconfondibile, misto d’ironia e tristezza, mi svelava finalmente il mistero di come avesse fatto a rintracciarmi.
Era capitato “per caso” sulla pagina Facebook di mia sorella e, come fulminato sulla strada per Damasco, era riuscito a mettersi in contatto, pregandola di darmi il mio indirizzo e dicendole che gli avrebbe fatto molto piacere riallacciare i vecchi rapporti con me. Mi raccontava che non era riuscito a realizzare i suoi sogni di artista, di non essere diventato famoso come cantante, anche se fino alla fine ci aveva tanto sperato. Con la sua musica non era riuscito a trovare quel sound, quelle note giuste, che gli avrebbero permesso di scrivere il pezzo-capolavoro, quello che lo avrebbe proiettato nel firmamento della musica italiana.
Continuai a leggere e finalmente potevo conoscere quello che aveva fatto Massimo dopo la fine della scuola. Mi scrisse che aveva soggiornato a Milano per diverso tempo e questo solo grazie ad un compromesso fatto con i suoi genitori: ossia l’obbligo di frequentare con costanza e profitto il locale Conservatorio di musica. Il tempo era passato velocemente e nessun avvenimento particolare era arrivato a sconvolgergli la vita di musicista, nemmeno un incontro fortuito, così come a volte succede nella vita. Alla fine la sua delusione era stata troppo grande e aveva deciso di fare ritorno a casa, di tornare al sud, in quella stessa piccola città di provincia dov’era nata la nostra amicizia ai tempi del liceo. Aveva capito che, per realizzare il suo sogno, doveva percorrere un cammino troppo difficile, tortuoso, pieno di ostacoli e di compromessi, un cammino che, probabilmente, lo avrebbe condotto su di una strada senza uscita.
Ora lavorava come operaio in una fabbrica di occhiali, ma di tanto in tanto ancora si divertiva ad andare in qualche locale a suonare al piano bar e a raccontare agli ospiti qualche aneddoto della sua vita da artista vissuta nella capitale della musica italiana: Milano. Questo gli sembrava comunque un modo piacevole per trascorrere le serate e tenersi aggrappato al suo sogno, oltre che per arrotondare le magre entrate mensili. Nell’email si rammaricava che erano trascorsi così tanti anni dal nostro ultimo incontro e si diceva dispiaciuto per non aver avuto il tempo di frequentarmi anche dopo la scuola.
Mi allegava una sua fotografia dalla quale, a stento, riuscii a capire che fosse proprio lui: la sua attuale fisionomia contrastava con i miei ricordi giovanili, anche se poi, guardandola meglio, nei suoi occhi vedevo ancora quella scintilla di luce, di follia, che solo i veri artisti potevano avere. Concludeva la sua lunga lettera rivolgendomi una domanda finale, proprio quella da me tanto temuta, chiedendomi:” Robbè ma almeno tu sei riuscito a realizzare i tuoi sogni di diventare uno scrittore?”.
Per un attimo fui preso dal panico e mille pensieri, mille paure, si affollarono improvvisamente nella mia mente; una vocina mi supplicava di cancellare quell’email, di dimenticarla e di fare in modo che tutto tornasse come prima. Ero totalmente confuso ma non potevo fare finta di niente, dovevo reagire in qualche modo. Tra quelle righe mi era parso di leggere una sua richiesta di aiuto e non potevo lasciare un amico in difficoltà.
Probabilmente anche Massimo aveva voglia di abbandonare quella sua vita sempre uguale e monotona, senza prospettive per il futuro e, forse, aveva intenzione di fare esattamente come me: allontanarsi da tutto e da tutti e trovare un posto dove poter dare respiro alla propria mente di artista e sollievo all’anima.
Era giunto il tempo di fare i conti con le mie paure e dovevo avere il coraggio di affrontarle definitivamente; mi chiesi se quella non fosse proprio l’occasione giusta, quella che inconsciamente stavo aspettando e cercai di rispondergli nel modo più sincero possibile. Mi pesava molto dover confessare proprio a lui, al mio caro amico di gioventù, che avevo abbandonato definitivamente il sogno di diventare uno scrittore e che adesso conducevo una vita modesta, in completo isolamento. Mi rallegrava l’idea di potergli scrivere che ero riuscito a dare almeno una piccola soddisfazione ai miei genitori: avevo conseguito la sudata laurea in giurisprudenza. E” vero, si trattava di una magra consolazione che non mi avrebbe riabilitato ai suoi occhi, ma era pur sempre un piccolo successo in un mare di fallimenti.
Conclusi quella lettera allegando una mia foto recente e sfidandolo a riconoscermi, già immaginando la sua faccia e le sue risate di scherno, la sua tagliente ironia. Lo vedevo seduto in cucina, intento a sorseggiare il suo caffè mentre, a voce alta, diceva: “Molto bene, il ragazzo dai lunghi riccioli biondi si è trasformato in un uomo dalla fronte alta e dai pochi capelli, è diventato un cinquantenne imbolsito e depresso”. In tutto questo mi chiedevo se anche Massimo avrebbe intravisto nei miei occhi quella speranza, quel desiderio di avere un’ultima occasione.
Probabilmente fu quello il momento in cui dentro di me cominciò a formarsi la convinzione che noi due, insieme, avremmo potuto realizzare i nostri sogni. Improvvisamente balenò in me l’idea di unire i nostri due talenti, le nostre due passioni – la musica e la scrittura – per provare a compiere insieme un’ultima missione prima di poter dire, definitivamente “mi dispiace, ho provato, ma ho fallito”. Era un’idea strana, folle, ma come tutte le idee che nascono per caso aveva la sua base di razionalità. In fondo non avevamo nulla da perdere se non quel poco di dignità che ancora ci restava.
Molte domande attendevano ancora una risposta ma adesso mi chiedevo se due persone così diverse potevano realizzare un progetto in comune: produrre un disco di successo di musica pop.
Non eravamo più” dei ragazzini e avevamo perso il nostro “fisic du role”, ma dentro di me ardeva ancora viva la fiamma della passione per la scrittura e avrei fatto di tutto per convincere Massimo ad accettare il mio invito.
Era tempo di agire e il lavoro adesso poteva aspettare ancora qualche minuto. Dovevo concentrarmi sulla risposta da inviare a Massimo e mi misi subito a scrivere al computer. Quando fui soddisfatto della lettera gli allegai la mia foto più recente, scattata da Olga durante quell’ultimo Natale, e mi affrettai a premere “invio”. Bisognava solo avere pazienza e aspettare che il tempo facesse il suo corso; molto presto avrei capito se quell’idea, quell’intuizione, avrebbe preso forma e vita.
Mentre pensavo a tutto questo, come in un flash back, mi tornarono alla mente gli anni di liceo, quelli vissuti come compagni di banco, dove nacque la nostra amicizia.
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