Nerra si inginocchiò accanto alle acque della fontana del tempio, fra le ossa di coloro che ci avevano provato in passato ed erano morti. Sopra di lei, le pendenze del vulcano sembravano guardare in basso rabbiose, vietandole di azzardare ciò che stava per fare. Guardandosi le braccia, poteva vedere le chiazze della malattia a squame lì sopra; le sue linee erano scure sulla sua pelle.
Non sarebbe morta come Lina. Anche se quelle acque l’avessero uccisa, sarebbe stato meglio che aspettare che la malattia la reclamasse laggiù sull’isola, dove il suo drago l’aveva portata. Assistere alla morte della sua amica, l’aveva spinta a percorrere tutta quella strada fino al tempio, alla fontana che aveva promesso al custode dell’isola, Kleos, che non avrebbe cercato.
Ne bevve le acque a quel punto; le deglutì in un singolo sorso lungo, che le prosciugò le mani che aveva messo a coppa. Non pareva avere senso sorseggiarla, quando un minimo tocco dell’acqua avrebbe dovuto portare alla morte.
Non osò sperare in una qualsiasi altra conseguenza.
“Non la chiamerebbero una fontana della guarigione se fosse solo una menzogna,” gridò, come se farlo potesse far avverare la sua affermazione. “Non avrebbero costruito tutto questo.”
Perché costruire un tempio all’aria aperta, se l’unico obiettivo fosse uccidere chi arriva? Perché preoccuparsi di metterci anche una fontana, o la strana pressione che l’aveva trattenuta dall’arrivo mentre percorreva le pendenze del vulcano? Kleos, il custode dei malati, le aveva detto che bere significava morire, che era tutto solo finalizzato a fare in modo che chi aveva la malattia del drago si uccidesse, ma Nerra doveva sperare che si sbagliasse, mentisse o entrambi.
Avrebbe funzionato. Doveva farlo.
Si alzò e rivolse lo sguardo all’isola attorno a lei, così vicina al continente di Sarras pur non essendone parte. Guardò quel feroce paesaggio vulcanico che aveva attraversato e poi la giungla al di là. Da lì, non poteva vedere il piccolo villaggio che cercava di contenere morti e morenti, coloro che lenti si trasformavano da malati a cose mostruose che conoscevano solo la fame e la morte. Non era meglio tentare quest’impresa che restare lì seduta, ad aspettare l’amara grazia del coltello di Kleos quando si sarebbe torta abbastanza?
Nerra restò lì in piedi, in attesa, cercando di immaginare l’acqua che lavorava al suo interno. Avrebbe già dovuto avvertire qualcosa? Conosceva le erbe abbastanza bene da sapere che di rado gli effetti erano immediati, ma in qualche modo si era aspettata che la guarigione delle acque fosse…
Gridò quando il dolore la colpì, così pungente e consumante da metterla di nuovo in ginocchio. Si aggrappò al suo stomaco, mentre il corpo le si contorceva agonizzante e le sue grida uscivano così rapide da non lasciarle neanche il tempo di respirare.
Kleos non aveva mentito; la fontana era un veleno per chi ne avesse bevuto le acque. Nerra poteva sentire quel liquido al suo interno adesso, le si dimenava dentro come una specie di serpente spinato, bruciando tutto come avesse ingoiato la lava del vulcano invece che mera acqua. Cercò di vomitarla, ma non ci riuscì; non aveva neanche più abbastanza controllo su se stessa per farlo.
“Ti prego…” gridò Nerra.
Le sembrò che il suo corpo si stesse facendo a pezzi da solo, muscolo dopo muscolo, osso dopo osso. Sembrava che ogni suo frammento fosse in guerra con il resto, scatenando un conflitto dove lei era il campo di battaglia, i guerrieri e la pianura sterile che avrebbe abbattuto, mentre le strappava via la vita.
“No…” urlò Nerra. Si ritrovò a pensare in quel momento a tutto ciò che era stata costretta a lasciarsi alle spalle nel Regno del Nord, a tutto ciò che non avrebbe mai più rivisto, mentre l’agonia di quelle acque mortali divampava al suo interno. Pensò ai suoi fratelli e alle sue sorelle, all’elegante Lenore e alla tutto tranne che elegante Erin, a Rodry che era sempre così veloce ad attaccare per difendere il prossimo e a Greave che era invece tranquillo e coscienzioso. Si ritrovò a pensare addirittura a Vars.
Al di sopra di tutto, però, si ritrovò a pensare al drago che aveva trovato. Nell’occhio della sua mente, era cresciuto, in un modo eccessivamente rapido, le sue squame brillavano con la lucentezza di un arcobaleno, le sue ali erano aperte mentre si librava in aria. L’immagine era così nitida che Nerra alzò lo sguardo, quasi aspettandosi di vederlo in cielo, come era successo quando i banditi l’avevano sorpresa nella foresta. L’aveva portata lì, quindi perché adesso non c’era?
Era sola però; più sola che mai. Persino nella foresta, c’erano gli animali e un senso di pace. Adesso… adesso c’era solo il dolore a riempirla, a contorcerla, a spezzarla. Nerra sentì il suo braccio spezzarsi e gridò, sentì i muscoli delle sue dita contrarsi così forte da frantumarle le ossa all’interno.
A un certo punto del processo, doveva essere svenuta per il dolore, perché rivide il drago, vide diversi draghi sollevarsi ancora su Sarras, in volo e in stormo a riempire il cielo. Volteggiarono su di lei e poi vi si ritrovò in mezzo, osservava la moltitudine dei loro colori, nero e rosso, dorato e smeraldo, e altri ancora.
Un secondo dopo era a terra, si spostava tra i resti degli edifici adesso molto più antichi di qualsiasi cosa giacesse nel Regno del Nord; erano cose che sembravano cresciute da sole, invece che essere state costruite. Pensò di aver scorto altre sagome muoversi tra quegli edifici, comparire agli estremi del suo campo visivo, ma ogni volta che cercava di girare la testa per acquisire una vista migliore, pareva che si sparpagliassero e scomparissero in lontananza, impossibili da raggiungere.
Nerra cercò di rincorrere quelle figure, ma fuggirono in tunnel le cui pareti si spostavano e allungavano appena lei vi si gettava dentro. Fu una pietra vivente a raggiungerla e afferrarla, per deformarla come argilla fino a farle perdere il respiro e impedirle di urlare persino in sogno.
Poi fece ciò che non si sarebbe mai aspettata di fare: si svegliò.
Era impossibile dire quanto tempo fosse passato. Il sole era ancora alto in cielo, ma poteva essere trascorsa una dozzina di giorni per quanto ne sapeva Nerra. Le doleva il corpo alla memoria dell’agonia alla quale quell’acqua l’aveva assoggettata, e si sentì così debole che…
No, aspetta; non si sentiva debole. Si sentiva assetata, affamata e stanca, ma non debole. Al contrario, si sentiva forte. Si alzò e, per la prima volta da ciò che sembrava un’eternità, non aveva alcun segno delle vertigini che l’avevano accompagnata per tutta la vita. Tuttavia, Nerra cadde quasi. I muscoli delle sue gambe sembravano… sbagliati, in qualche modo. Diversi.
Persino il mondo attorno a lei sembrava diverso, cambiato in un certo senso. I suoi colori erano lievemente cambiati, come se potesse vedere più di essi che mai, mentre sembrava che la fragranza della giungla vicina fosse così forte che poteva quasi assaggiarla.
Adesso, però, non importava. Ciò che importava era che fosse sopravvissuta. Quello significava… quello significava che era guarita? La fontana l’aveva curata?
Nerra a malapena osava sperare che potesse essere vero, che potesse essere sopravvissuta quando tanti altri erano morti, ma la speranza iniziò sì a sollevarsi dentro di lei. Era senz’altro viva e tutte quelle terribili sensazioni delle ossa che le si spezzavano erano adesso sparite. Se era intera, era troppo sperare che potesse anche essere guarita?
Poi Nerra vide il suo braccio. Era ancora un braccio umanoide, non deformato in quell’orrende cose malfatte in cui si tramutavano coloro che avevano la malattia del drago e restavano al villaggio, ma era adesso del tutto ricoperto da iridescenti squame di un blu profondo. I muscoli si muovevano sotto alla sua pelle, molto più spessi di com’erano stati prima e, persino mentre si osservava, Nerra vide gli artigli estendersi dalle sue dita, con un aspetto affilato e malvagio.
Gridò sotto shock alla vista del suo braccio ridotto in quel modo; iniziò ad artigliarsi le squame, e aveva gli artigli per farlo, il che la faceva solo sentire peggio. Che cosa le stava accadendo, che cosa era diventata? Si sentiva come non potesse respirare e quello non aveva niente a che vedere con la malattia, ma solo con l’assoluta stranezza di ciò che stava accadendo. Fece un passo indietro, ma quello la portò solo verso la piscina d’acqua. Non poteva fermarsi; doveva guardare.
L’essere che rispose a quel suo sguardo fisso era del tutto diverso da ciò che era stata, ma non era quella cosa rotta e deformata che aveva tanto temuto di diventare. Nerra poté solo guardarlo per lunghi secondi, incapace di dargli un senso; orrore, shock e un totale fascino si battevano per la supremazia dentro di lei.
La sua pelle era squamosa, i suoi occhi gialli come quelli di un serpente, i suoi tratti dispiegati in qualcosa di più draconico, eppure c’era un’innegabile simmetria e bellezza in quei lineamenti. Nerra avrebbe del tutto rifiutato quell’immagine, eppure, guardandola, c’era qualcosa che le ricordava lei stessa. Persino la memoria dei suoi capelli era lì, in ciocche frondose che somigliavano alla cresta di una lucertola. Il suo corpo era altrettanto squamoso e più muscoloso adesso, capace di muoversi sinuoso grazie al riassetto delle sue articolazioni, eppure non aveva l’aspetto di un mostro.
“Certo che sono un mostro!” disse forte e la sua voce era l’unica parte di lei che non sembrava cambiata. Quello rese tutto peggiore in qualche modo, invece che migliore. Come poteva quella parte di lei essere rimasta invariata, quando tutto il resto si era trasformato? Un pensiero la raggiunse: nessuno della sua famiglia l’avrebbe adesso riconosciuta, aveva perso tutto. La rabbia le si scatenò dentro, repentina, improvvisa e totale; afferrò un pezzo di muro del tempio e lo fece a pezzi a mani nude. Fu solo allora che comprese quanto fosse forte nelle sue nuove sembianze.
La rabbia era ancora lì, e Nerra poteva sentirla battersi per emergere in superficie, per avere la meglio, come chi si trasformava al villaggio lasciava spazio a una creatura irrazionale. Nerra si ribellò a essa, allo shock, al dolore profondo di quella trasformazione, relegando tutto nelle periferie del suo essere e rifiutandosi di diventare qualcosa di simile. Si sporse dal lato della pozza, fissando giù nell’acqua, costringendosi a osservare quella versione mutata della sua persona, finché pensò che poteva sopportarlo.
La fontana non l’aveva uccisa, non l’aveva curata, l’aveva cambiata. Era stata come un catalizzatore per la trasformazione connessa alla malattia, ma l’aveva portata direttamente oltre alle creature malfatte che di solito creava, per renderla qualcosa di lucente e flessibile, dall’aspetto umano e di lucertola, tutto in una volta.
Nerra non sapeva cosa fare con quel pensiero, non sapeva come superare lo shock di chi era, di com’era diventata. Non lo comprendeva, non sapeva quale avrebbe dovuto essere la sua mossa successiva. Aveva bisogno di capire cosa stava succedendo e cosa le era successo, ma c’era un solo posto dove avrebbe potuto trovare le risposte ed era lo stesso dove avrebbero potuto ucciderla per com’era ora.
Procedendo a passo lungo sulla superficie del vulcano, Nerra si mise in cammino di nuovo verso il villaggio.
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