Читать книгу «L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке» онлайн полностью📖 — Габриэле д’Аннунцио — MyBook.

I

Il primo ricordo è questo. Intendevo, quando ho incominciato il racconto, intendevo: questo è il primo ricordo che si riferisce alla cosa tremenda.

Era di aprile, dunque. Eravamo da alcuni giorni alla Badiola.

– Ah, figliuoli miei, – aveva detto mia madre, con la sua grande ingenuità – come siete sciupati! Ah quella Roma, quella Roma! Bisogna che restiate qui con me, in campagna, molto tempo, per rimettervi… molto tempo…

– Sì – aveva detto Giuliana, sorridendo – sì, mamma, resteremo quanto vorrai.

Quel sorriso ridivenne frequente su le labbra di Giuliana, in presenza di mia madre; e, sebbene la malinconia degli occhi rimanesse inalterabile, era così dolce quel sorriso, era così profondamente buono che io stesso mi lasciai illudere. Ed osai mirare la mia speranza.

Nei primi giorni, mia madre non si distaccava mai dalle care ospiti; pareva che volesse saziarle di tenerezza. Due o tre volte io la vidi, palpitando d’una commozione indefinibile, io la vidi accarezzare con la sua mano benedetta i capelli di Giuliana. Una volta la udii che chiedeva:

– Ti vuol sempre lo stesso bene?

– Povero Tullio! Sì – rispose l’altra voce.

– Dunque, non è vero…

– Che?

– Quello che mi hanno riferito.

– Che ti hanno riferito?

– Nulla, nulla… Credevo che Tullio ti avesse dato qualche dispiacere. Parlavano nel vano di una finestra, dietro le cortine ondeggianti, mentre di fuori stormivano gli olmi. Io mi feci innanzi, prima che s’accorgessero di me; sollevai una cortina, mostrandomi.

– Ah, Tullio! – esclamò mia madre.

E si scambiarono uno sguardo, un po’ confuse.

– Parlavamo di te – soggiunse mia madre.

– Di me! Male? – chiesi con un’aria gaia.

– No, bene – disse Giuliana, sùbito; e io colsi nella sua voce l’intenzione, ch’ella certo ebbe, di rassicurarmi.

Il sole d’aprile batteva sul davanzale, riluceva nei capelli grigi di mia madre, svegliava qualche tenue bagliore su le tempie di Giuliana. Le cortine candidissime ondeggiavano, si riflettevano nei vetri luminose. I grandi olmi dello spiazzo, coperti di piccole foglie nuove, producevano un susurro, ora leggero ora forte, alla cui misura le ombre or meno or più si agitavano. Dal muro stesso della casa, ammantato di violacciocche innumerevoli, saliva un profumo pasquale, quasi un vapore invisibile di mirra.

– Com’è acuto quest’odore! – mormorò Giuliana, passandosi le dita su i sopraccigli e socchiudendo le palpebre. – Stordisce.

Io stavo tra lei e mia madre, un poco indietro. Una voglia mi venne, di chinarmi sul davanzale cingendo l’una e l’altra con le mie braccia. Avrei voluto mettere in quella semplice familiarità tutta la tenerezza che mi gonfiava il cuore e far intendere a Giuliana una moltitudine di cose inesprimibili e riconquistarla intera con quell’unico atto. Ma ancóra mi tratteneva un senso di temenza quasi puerile.

– Guarda, Giuliana, – disse mia madre, indicando un punto del colle – la tua Villalilla. La scorgi?

– Sì, sì.

Ella, schermendosi dal sole con la mano aperta, aguzzava la vista; e io, che la osservavo, notai un piccolo tremito nel suo labbro inferiore.

– Distingui il cipresso? – le chiesi, volendo aumentare con la domanda suggestiva il suo turbamento.

E io rivedevo nella mia imaginazione il vecchio cipresso venerabile che aveva al suo piede un cespo di rose e un coro di passeri alla sua cima.

– Sì, sì, lo distinguo… appena.

Villalilla biancheggiava a mezzo dell’altura, molto lontana, in un pianoro. La catena dei colli si svolgeva d’innanzi a noi con un lineamento nobile e pacato, per ove gli oliveti avevano un’apparenza di straordinaria leggerezza somigliando a un vapore verdegrigio cumulato in forme costanti. Gli alberi in fiore, bianchi e rosei trionfi, interrompevano l’uguaglianza. Il cielo pareva di continuo impallidire, come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse.

– Andremo a Villalilla dopo Pasqua. Sarà tutta fiorita – io dissi, tentando di rimettere in quell’anima il sogno che le avevo strappato brutalmente.

E osai accostarmi, cingere con le mie braccia Giuliana e mia madre, chinarmi sul davanzale tenendo la mia testa tra l’una e l’altra testa; in modo che i capelli dell’una e dell’altra mi sfioravano. La primavera, quella bontà dell’aria, quella nobiltà dei luoghi, quella placida trasfigurazione di tutte le creature per una virtù materna, e quel cielo divino pel suo pallore, più divino come più si faceva pallido, mi davano un senso di vita così nuovo che io pensai tremando dentro di me: “Ma è possibile? Ma è possibile? Ma dunque, dopo tutto quel che è accaduto, dopo tutto quel che ho sofferto, dopo tante colpe, dopo tante vergogne, io posso ancóra trovare nella vita questo sapore! Io posso ancóra sperare, posso ancóra avere il presentimento di una felicità! Chi dunque mi ha benedetto?”. Pareva che tutto il mio essere si alleggerisse, espandendosi, dilatandosi oltre i suoi confini, con una vibrazione sottile, rapida e incessante. Nulla può dare un’idea di ciò che diveniva in me la sensazione minima prodotta da un capello che mi sfiorava la guancia.

Rimanemmo alcuni minuti in quell’attitudine, senza parlare. Gli olmi stormivano. Il tremolio innumerevole dei fiori gialli e violacei, che ammantavano il muro sotto la finestra, incantava le mie pupille. Un profumo denso e caldo saliva nel sole, col ritmo di un alito.

A un tratto, Giuliana si sollevò, si ritirò, smorta, con qualche cosa di torbido negli occhi, con la bocca sforzata come da una nausea, dicendo:

– Quest’odore è terribile. Dà il capogiro. Mamma, non fa male anche a te?

E si volse per andarsene; diede qualche passo incerto, vacillante; poi si affrettò, uscì dalla stanza, seguita da mia madre.

Io le guardai allontanarsi per la fuga delle porte, ancóra tenuto da un resto della sensazione primitiva, trasognato.

II

La mia confidenza nell’avvenire aumentava di giorno in giorno. Non mi ricordavo quasi più di nulla. La mia anima troppo affaticata si dimenticava di soffrire. In certe ore di completo abbandono tutto si dileguava, si distendeva, si fondeva, si immergeva nella fluidità originale, diveniva irriconoscibile. Poi, dopo questi strani dissolvimenti interiori, mi pareva che un altro principio di vita entrasse in me, che un’altra forza mi possedesse.

Una moltitudine di sensazioni involontarie, spontanee, inconscienti, istintive componeva la mia esistenza reale. Tra l’esterno e l’interno si stabiliva un giuoco di minime azioni e di minime reazioni istantanee che fremevano in infinite ripercussioni; e ciascuna di queste ripercussioni incalcolabili si convertiva in un fenomeno psichico stupendo. Tutto il mio essere veniva alterato da ciò che passava nell’aria, da un soffio, da un’ombra, da un bagliore.

Le grandi malattie dell’anima come quelle del corpo rinnovellano l’uomo; e le convalescenze spirituali non sono meno soavi e meno miracolose di quelle fisiche. Davanti a un arbusto fiorito, davanti a un ramo coperto di minute gemme, davanti a un rampollo nato su un vecchio tronco quasi estinto, davanti alla più umile fra le grazie della terra, alla più modesta fra le trasfigurazioni della primavera, io mi soffermavo, semplice, candido, attonito!

Uscivo spesso con mio fratello al mattino. In quell’ora tutto era fresco, facile, libero. La compagnia di Federico mi purificava e mi fortificava come la buona brezza selvaggia. Aveva allora ventisette anni Federico; aveva vissuto quasi sempre nella campagna, d’una vita sobria e laboriosa; pareva portare in sé raccolta la mite sincerità terrestre. Egli possedeva la Regola. Leone Tolstoj, baciandolo su la bella fronte serena, lo avrebbe chiamato suo figliuolo.

Andavamo per i campi senza mèta, di rado ragionando. Egli lodava la fertilità dei nostri dominii, mi spiegava le innovazioni introdotte nelle culture, mi mostrava i miglioramenti. Le case dei nostri contadini erano larghe, ariose, linde. Le nostre stalle erano piene di un bestiame sano e ben pasciuto. Le nostre cascine erano in un ordine perfetto. Spesso, nel cammino, egli s’arrestava per osservare una pianta. Le sue mani virili erano di una delicatezza estrema quando toccavano le piccole foglie verdi in cima ai rametti novelli. Talvolta passavamo attraverso un frutteto. I peschi, i peri, i meli, i ciliegi, i prugni, gli albicocchi portavano su le loro braccia milioni di fiori; giù per la trasparenza dei petali rosei ed argentei, la luce si cangiava quasi direi in una umidità divina, in una cosa indescrivibilmente vaga e benigna; tra i minimi intervalli delle ghirlande leggere, il cielo aveva la vivente dolcezza di uno sguardo.

Egli diceva, imaginando il pensile tesoro futuro, mentre io lodavo i fiori: – Vedrai, vedrai i frutti.

“Io li vedrò” ripetevo dentro di me. “Vedrò cadere i fiori, nascere le foglie, crescere i frutti, colorirsi, maturarsi, distaccarsi.” Questa assicurazione, già passata per la bocca di mio fratello, aveva per me un’importanza grave, come se si riferisse a non so quale felicità promessa e attesa, la quale appunto dovesse svolgersi in quel periodo del parto arboreo, nel tempo che corre tra il fiore e il frutto. “Prima che io abbia manifestato il mio proposito, a mio fratello par già naturale che io rimanga ormai qui, nella campagna, con lui, con nostra madre; poiché egli dice che io vedrò i frutti dei suoi alberi. Egli è sicuro che io li vedrò! Dunque è proprio vero che è incominciata una vita nuova per me, e che questo sentimento ch’io ho dentro di me non m’inganna. Infatti, tutto ora si compie con una facilità strana, insolita, con un’abbondanza d’amore. Come amo Federico! Non l’ho mai amato così.” Tali erano i miei soliloquii interiori, un po’ slegati, incoerenti, qualche volta puerili per una singolare disposizione d’animo che mi portava a vedere in qualunque fatto insignificante un segno favorevole, un pronostico benigno.

Il gaudio mio più intenso era nel sapermi lontano dalle cose passate, lontano da certi luoghi, da certe persone, inaccessibile. Assaporavo talvolta la pace della campagna primaverile raffigurandomi lo spazio che mi divideva dal mondo oscuro dove io avevo tanto sofferto e di dolori tanto cattivi. Una paura indefinita mi stringeva ancóra, talvolta, e mi faceva cercare con sollecitudine intorno a me le prove della sicurtà presente, mi spingeva a mettere il braccio sotto il braccio di mio fratello, a leggere negli occhi di lui l’affetto indubitabile e tutelare.

Io confidavo in Federico, ciecamente. Avrei voluto essere da lui non soltanto amato ma dominato; avrei voluto cedere la primogenitura a lui più degno e star sommesso al suo consiglio, riguardarlo come la mia guida, obedirgli. Al suo fianco non avrei più corso il pericolo di smarrirmi, poiché egli conosceva la via diritta e camminava per quella con un passo infallibile; ed egli anche aveva il braccio possente e mi avrebbe difeso. Era l’uomo esemplare: buono, forte, sagace. Nulla per me uguagliava in nobiltà lo spettacolo di quella giovinezza devota alla religione del “conscientemente bene operare”, dedicata all’amore della Terra. Parevano i suoi occhi aver assunto un limpido color vegetale dalla contemplazione assidua delle cose verdi.

– Gesù della Gleba – io lo chiamai un giorno, sorridendo.

Era un mattino pieno d’innocenza, uno di quei mattini che dànno imagine delle albe primordiali nell’infanzia della Terra. Sul limite di un campo, mio fratello parlava a un gruppo di agricoltori. Parlava in piedi, avanzando di tutto il capo gli astanti; e il suo gesto calmo dimostrava la semplicità delle sue parole. Uomini vecchi incanutiti nella saggezza, uomini maturi già prossimi al limitare della vecchiaia ascoltavano quel giovine. Tutti portavano su i loro corpi nodosi la traccia della grande comune opera. Poiché nessun albero era da presso, poiché il frumento era umile nei solchi, le loro attitudini apparivano integre nella santità della luce.

Come mi vide muovere verso di lui, mio fratello licenziò i suoi uomini per venirmi incontro. Allora spontanea mi uscì dalle labbra la salutazione:

– Gesù della Gleba, osanna!

Egli aveva per tutti gli esseri vegetali una diligenza infinita. Nulla sfuggiva alle sue pupille acute, quasi onniveggenti. Nelle nostre corse mattutine, si soffermava ad ogni tratto per liberare da una chiocciola, da un bruco, da una formica una piccola foglia. Un giorno, senza badarci, camminando, battevo le erbe con la punta del bastone; e le tenere cime verdi recise ad ogni colpo s’involavano. Egli ne soffriva perché mi tolse di mano il bastone ma con un gentile atto; ed arrossì, pensando forse che quella sua misericordia mi sarebbe parsa una esagerata morbidezza sentimentale. Oh quel rossore su quel volto così maschio!

Un altro giorno, mentre spezzavo a un melo qualche ramo fiorito, sorpresi negli occhi di Federico un’ombra di rammarico. Sùbito tralasciai, ritrassi le mani, dicendo:

– Se ti dispiace…

Egli si mise a ridere forte.

– Ma no, ma no… Spoglia pure tutto l’albero.

Intanto il ramo già rotto, ritenuto da alcune delle sue vive fibre, penzolava lungo il fusto; e, proprio, quella frattura umida di linfa aveva un aspetto di cosa dolente; e quei fiori esili, un po’ carnicini, un po’ bianchi, simili a ciocche di rose scempie, che portavano un germe omai condannato, avevano all’aria un tremolio incessante.

Io dissi allora, come ad attenuare la crudezza di quella manomessione:

– È per Giuliana.

E, strappando le ultime fibrille vive, distaccai il ramo già rotto.

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