Читать книгу «L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке» онлайн полностью📖 — Габриэле д’Аннунцио — MyBook.
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– Vedi, così tu mi guasti la festa.

– No, no. Ti dirò… ti dirò… poi. Non ci pensare, ora; ti prego.

– Sii buono!

Mia madre rientrava con Maria e Natalia. Ma l’accento con cui Giuliana aveva proferito quelle poche parole bastò per convincermi che ella non sospettava la verità. Pensava ella forse che quella tristezza mi venisse da un’ombra del mio passato incancellabile e inespiabile? Pensava che io fossi torturato dal rammarico di averle fatto tanto male e dal timore di non meritare tutto il suo perdono?

Fu ancóra una commozione viva, la mattina dopo (per compiacere il desiderio di lei aspettavo nella stanza prossima), quando mi sentii chiamare dalla sua voce squillante.

– Tullio, vieni.

Ed entrai; e la vidi in piedi, che sembrava più alta, più snella, quasi fragile. Vestita d’una specie di tunica ampia e fluida, a lunghe pieghe diritte, ella sorrideva, esitando, reggendosi appena, tenendo le braccia discoste dai fianchi come per cercare l’equilibrio, volgendosi ora a me ora a mia madre.

Mia madre la guardava con una indescrivibile espressione di tenerezza, pronta a sorreggerla. Io stesso tendevo le mani, pronto a sorreggerla.

– No, no, – ella pregò – lasciatemi, lasciatemi. Non cado. Voglio andare da me fino alla poltrona.

Ella avanzò il piede, fece un passo, pianamente. Aveva nel viso il candore d’una gioia infantile.

– Bada, Giuliana!

Fece ancóra due o tre passi; poi, assalita da uno sbigottimento repentino, dal timor pànico di cadere, esitò un attimo tra me e mia madre, e si gittò nelle mie braccia, sul mio petto, abbandonandosi con tutto il suo peso, sussultando come se singhiozzasse. Ella rideva, invece, un poco soffocata dall’ansia; e, come ella non portava busto, le mie mani la sentirono tutta esile e pieghevole a traverso la stoffa, il mio petto la sentì tutta palpitante e morbida, le mie nari aspirarono il profumo dei suoi capelli, i miei occhi rividero sul suo collo il piccolo segno bruno.

– Ho avuto paura – ella diceva interrottamente, ridendo e ansando – ho avuto paura di cadere.

E, come ella arrovesciava la testa verso mia madre per guardarla, senza staccarsi da me, io scorsi un poco della sua gengiva esangue e il bianco degli occhi e qualche cosa di convulso in tutto il viso. E conobbi che tenevo fra le braccia una povera creatura inferma, profondamente alterata dall’infermità, con i nervi indeboliti, con le vene impoverite, forse insanabile. Ma ripensai la sua trasfigurazione in quella sera del bacio inaspettato; e l’opera di carità e d’amore e d’ammenda, a cui rinunziavo, ancóra una volta m’apparve bellissima.

– Conducimi tu alla poltrona, Tullio – ella diceva.

Sostenendola col mio braccio alle reni, io la condussi piano piano; l’aiutai ad adagiarsi; disposi su la spalliera i cuscini di piume, e mi ricordo che scelsi quello di tono più squisito perché ella vi appoggiasse la testa. Anche, per metterle un cuscino sotto i piedi, m’inginocchiai; e vidi la sua calza di colore gridellino, la sua pianella esigua che nascondeva poco più del pollice. Come in quella sera, ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole. E io m’indugiavo. Accostai un piccolo tavolo da tè, sopra ci posai un vaso di fiori freschi, qualche libro, una stecca d’avorio. Senza volere, mettevo in quelle mie premure un po’ di ostentazione.

L’ironia ricominciò. “Molto abile! Molto abile! È utilissimo quel che fai, sotto gli occhi di tua madre. Come potrà ella sospettare, dopo avere assistito a queste tue tenerezze? Quel po’ di ostentazione, anche, non guasta. Ella non ha la vista troppo acuta. Séguita, séguita. Tutto va a meraviglia. Coraggio!”

– Oh come si sta bene qui! – esclamò Giuliana con un sospiro di sollievo, socchiudendo i cigli. – Grazie, Tullio.

Qualche minuto dopo, quando mia madre uscì quando rimanemmo soli, ella ripeté, con un sentimento più profondo:

– Grazie.

E alzò una mano verso di me, perché io la prendessi nelle mie. Essendo ampia la manica, nel gesto il braccio si scoperse fin quasi al gomito. E quella mano bianca e fedele, che portava l’amore, e l’indulgenza, la pace, il sogno, l’oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, tremò un istante nell’aria verso di me come per l’offerta suprema.

Credo che nell’ora della morte, nell’attimo stesso in cui cesserò di soffrire, io rivedrò quel gesto solo; fra tutte le imagini della vita passata innumerabili, rivedrò unicamente quel gesto.

Quando ripenso, non riesco a ricostruire con esattezza la condizione nella quale mi trovai. Posso affermare che anche allora io comprendevo l’estrema gravità del momento e lo straordinario valore degli atti che si compivano ed erano per compiersi. La mia perspicacia era, o mi pareva, perfetta. Due processi di conscienza si svolgevano dentro di me, senza confondersi, bene distinti, paralleli. In uno predominava, insieme con la pietà verso la creatura che io stava per colpire, un sentimento di acuto rammarico verso l’offerta ch’io stava per respingere. Nell’altro predominava, insieme con la cupa bramosia verso l’amante lontana, un sentimento egoistico esercitato nel freddo esame delle circostanze che potevano favorire, la mia impunità. Questo parallelismo portava la mia vita interna ad una intensità e ad una accelerazione incredibili.

Il momento decisivo era venuto. Dovendo partire al domani, non potevo temporeggiare più oltre. Perché la cosa non sembrasse oscura e troppo subitanea, era necessario in quella mattina stessa, a colazione, annunziare la partenza a mia madre e addurre il pretesto plausibile. Era necessario anche, prima che a mia madre, dare l’annunzio a Giuliana perché non accadessero contrattempi pericolosi. “E se Giuliana prorompesse, alfine? Se, nell’impeto del dolore e dello sdegno, ella rivelasse a mia madre la verità? Come ottenere da lei una promessa di silenzio, un nuovo atto di abnegazione?” Fino all’ultimo io discussi, dentro di me. “Comprenderà sùbito, alla prima parola? E se non comprendesse? Se ingenuamente mi chiedesse la ragione del mio viaggio? Come risponderei? Ma ella comprenderà. È impossibile che ella non abbia già saputo da qualcuna delle sue amiche, da quella signora Tàlice, per esempio, che Teresa Raffo non è a Roma.”

Le mie forze cominciavano già a cedere. Non avrei potuto più a lungo sostenere l’orgasmo che cresceva di minuto in minuto. Mi risolsi, con una tensione di tutti i miei nervi; e, poiché ella parlava, desiderai che ella medesima mi offrisse l’opportunità di scoccare la freccia.

Ella parlava di molte cose specialmente future, con una volubilità insolita. Quel non so che di convulso in lei, già da me notato prima, mi pareva più palese. Io stavo ancóra in piedi, dietro la poltrona. Fino a quel momento avevo evitato il suo sguardo movendomi ad arte per la stanza, sempre dietro la poltrona, ora occupato a fermare le tende della finestra, ora a riordinare i libri nella piccola scansia, ora a raccogliere di sul tappeto le foglie cadute da un mazzo di rose disfatto. Stando in piedi, guardavo la riga dei suoi capelli, i suoi cigli lunghi e ricurvi, la lieve palpitazione del suo petto, e le sue mani, le sue belle mani che posavano su i bracciuoli, prone come in quel giorno, pallide come in quel giorno quando “soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino”.

Quel giorno! Non era trascorsa neppure una settimana. Perché pareva dunque tanto remoto?

Stando in piedi dietro di lei, in quella tensione estrema, come in agguato, io pensai che forse ella sentiva per istinto sul suo capo la minaccia; e credetti indovinare in lei una specie di vago malessere. Ancóra una volta mi si strinse il cuore, intollerabilmente.

A un punto, infine, ella disse:

– Domani, se starò meglio, tu mi porterai su la terrazza, all’aria…

Io interruppi:

– Domani non sarò qui.

Ella si scosse al suono strano della mia voce. Io soggiunsi, senza attendere:

– Partirò.

Soggiunsi ancóra, con uno sforzo per snodare la lingua, raccapricciato come uno che debba iterare il colpo per finire la vittima:

– Partirò per Firenze.

– Ah!

Ella aveva compreso a un tratto. Si volse con un moto rapido, si torse tutta su i cuscini per guardarmi; e io rividi, per quella torsione violenta, il bianco de’ suoi occhi, la sua gengiva esangue.

– Giuliana! – balbettai, senza sapere che altro dirle, chinandomi verso di lei, temendo ch’ella venisse meno.

Ma ella abbassò le palpebre, si ricompose, si ritrasse, si restrinse in sé stessa, come presa da un gran freddo. Rimase così qualche minuto, con gli occhi chiusi, con la bocca serrata, immobile. Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva nelle mani davano indizio della vita.

Non fu un delitto? Fu il primo dei miei delitti; e non il minore, forse.

Partii, in condizioni terribili. La mia assenza durò più di una settimana. Quando tornai e nei giorni che seguirono il mio ritorno, io stesso mi meravigliavo della mia sfrontatezza quasi cinica. Ero posseduto da una specie di malefizio che aboliva in me ogni senso morale e mi rendeva capace delle peggiori ingiustizie, delle peggiori crudeltà. Giuliana anche questa volta mostrava una forza prodigiosa; anche questa volta aveva saputo tacere. E m’appariva chiusa nel suo silenzio come in un’armatura adamantina, impenetrabile.

Andò con le figlie e con mia madre alla Badiola. Le accompagnava mio fratello. Io rimasi a Roma.

Da quel tempo incominciò per me un periodo tristissimo, oscurissimo, il cui ricordo ancóra mi riempie di nausea e d’umiliazione. Tenuto da quel sentimento che meglio di ogni altro rimescola il fango essenziale nell’uomo, io patii tutto lo strazio che una donna può fare di un’anima fiacca, appassionata e sempre vigile. Accesa da un sospetto, una terribile gelosia sensuale divampò in me disseccando tutte le buone fonti interiori, alimentandosi di tutto il fecciume che posava nell’infimo della mia sostanza bruta.

Teresa Raffo non m’era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una imagine fallica, da una sozzura. Ed ella si valeva del mio stesso disprezzo per inacerbire la mia brama. Agonie atroci, gioie abiette, sottomissioni disonoranti, patti vili proposti ed accettati senza rossore, lacrime più acri di qualunque tossico, frenesie improvvise che mi spingevano sul confine della demenza, cadute nell’abisso della lussuria così violente che mi lasciavano per lunghi giorni istupidito, tutte le miserie e tutte le ignominie della passione carnale esasperata dalla gelosia, tutte io le conobbi. La mia casa mi divenne estranea; la presenza di Giuliana mi divenne incresciosa. Intere settimane passavano, talvolta, senza che io le rivolgessi una parola. Assorto nel mio supplizio interiore, io non la vedevo, non la udivo. In certi momenti, levando gli occhi su lei, mi meravigliavo del suo pallore, della sua espressione, di certe particolarità del suo volto, come di cose nuove, inaspettate, strane; e non giungevo a riconquistare intera la nozione della realtà. Tutti gli atti della sua esistenza m’erano ignoti. Io non provavo alcun bisogno d’interrogarla, di sapere; non provavo per lei alcuna inquietudine, alcuna sollecitudine, alcun timore. Una durezza inesplicabile mi fasciava l’anima contro di lei. Anche, talvolta, io avevo contro di lei una specie di vago rancore, inesplicabile. Un giorno la sentii ridere; e il suo riso m’irritò, mi fece quasi ira.

Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava l’aria di Orfeo:

 
Che farò senza Euridice?…
 

Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo. – Perché cantava? Era dunque lieta? A quale affetto del suo animo rispondeva quell’effusione insolita? – Un turbamento inesplicabile mi vinse. Andai verso di lei senza riflettere, chiamandola per nome.

Vedendomi entrare nella sua stanza, ella si stupì; rimase per un poco attonita, in una sospensione manifesta.

– Canti? – io dissi, per dire qualche cosa, impacciato, meravigliato io stesso del mio atto straordinario.

Ella sorrise d’un sorriso incerto, non sapendo che rispondere, non sapendo quale contegno assumere davanti a me. E mi parve di leggere nei suoi occhi una curiosità penosa, già altre volte da me notata fuggevolmente: quella curiosità compassionevole con cui si guarda una persona sospettata di follia, un ossesso. Infatti, nello specchio di contro io scorsi la mia imagine; rividi il mio volto scarno, le mie occhiaie profonde, la mia bocca tumida, quell’aspetto di febricitante che avevo già da qualche mese.

– Ti vestivi per uscire? – le domandai, ancóra impacciato, quasi peritoso, non sapendo che altro dimandare, volendo evitare il silenzio.

– Sì.

Era di mattina; era di novembre. Ella stava in piedi, presso a un tavolo ornato di merletti su cui rilucevano sparse le innumerevoli minuterie moderne destinate alla cura della bellezza muliebre. Portava un abito di vigogna oscuro; e teneva ancóra in mano un pettine di tartaruga bionda con la costola d’argento. L’abito, di foggia semplicissima, secondava la svelta eleganza della persona. Un gran mazzo di crisantemi bianchi le saliva di sul tavolo all’altezza della spalla. Il sole dell’estate di San Martino scendeva per la finestra; e nella luce vagava un profumo di cipria o d’essenza che io non seppi riconoscere.

– Qual è, ora, il tuo profumo? – le domandai.

Ella rispose:

– Crab-apple.

Io soggiunsi:

– Mi piace.

Ella prese di sul tavolo una fiala e me la porse. E io la fiutai a lungo per fare qualche cosa, per avere il tempo di preparare un’altra qualunque frase. Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza. Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi pareva un’altra donna. E intanto l’aria di Orfeo mi ondeggiava ancóra su l’anima, m’inquietava ancóra.

 
Che farò senza Euridice?…
 

In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, il fantasma della melodia antica pareva svegliare il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero.

– Com’è bella l’aria che tu cantavi dianzi! – io dissi, obbedendo all’impulso che mi veniva dalla strana inquietudine.

– Tanto bella! – ella esclamò.

E una domanda mi saliva alle labbra: “Ma perché cantavi?”. La trattenni; e ricercai dentro di me la ragione di quella curiosità che mi pungeva.

Successe un intervallo di silenzio. Ella scorreva con l’unghia del pollice su i denti del pettine, producendo un leggero stridore. (Quello stridore è una particolarità chiarissima nel mio ricordo).

– Tu ti vestivi per uscire. Séguita dunque – io dissi.

– Non ho da mettermi che la giacca e il cappello. Che ora è?

– Manca un quarto alle undici.

– Ah, già così tardi?

Ella prese il cappello e il velo; e si mise a sedere davanti allo specchio. Io la guardavo. Un’altra domanda mi salì alle labbra: “Dove vai?”. Ma trattenni anche questa, benché potesse sembrare naturale. E seguitai a guardarla attento.

Ella mi riapparve quale era in realtà: una giovine signora elegantissima, una dolce e nobile figura, piena di finezze fisiche, e illuminata da intense espressioni spirituali; una signora adorabile, insomma, che avrebbe potuto essere un’amante deliziosa per la carne e per lo spirito. “S’ella fosse veramente l’amante di qualcuno?” allora pensai. “Certo è impossibile ch’ella non sia stata molte volte insidiata e da molti. Troppo è noto l’abbandono in cui la lascio; troppo son noti i miei torti. S’ella avesse ceduto a qualcuno? O se anche stesse per cedere? S’ella giudicasse alfine inutile e ingiusto il sacrificio della sua giovinezza? S’ella fosse alfine stanca della lunga abnegazione? S’ella conoscesse un uomo a me superiore, un seduttore delicato e profondo che le insegnasse la curiosità del nuovo e le facesse dimenticare l’infedele? Se io avessi già perduto interamente il suo cuore, troppe volte calpestato senza pietà e senza rimorso?” Uno sgomento subitaneo m’invase; e la stretta dell’angoscia fu così forte che io pensai: “Ecco, ora le confesso il mio dubbio. La guarderò in fondo, alle pupille dicendole – Sei ancóra pura? E saprò la verità. Ella non e capace di mentire”. “Non e capace di mentire. Ah, ah, ah! Una donna!… Che ne sai tu? Una donna è capace di tutto. Ricordatene. Qualche volta un gran manto eroico è servito a nascondere una mezza dozzina di amanti. Sacrificio! Abnegazione! Apparenze, parole. Chi potrà mai conoscere il vero? Giura, se puoi, su la fedeltà di tua moglie: non dico su quella d’oggi ma soltanto su quella anteriore all’episodio della malattia. Giura in perfetta fede, se puoi.” E la voce maligna (ah, Teresa Raffo, come operava il vostro veleno!), la voce perfida mi agghiacciò.

– Abbi pazienza, Tullio, – mi disse, quasi timidamente, Giuliana. – Mettimi questo spillo qui, nel velo.

Ella teneva le braccia alzate e arcuate verso la sommità della testa, per fermare il velo; e le sue dita bianche cercavano invano d’appuntarlo. La sua attitudine era piena di grazia. Le sue dita bianche mi fecero pensare: “Quanto tempo è che noi non ci stringiamo la mano! Oh le forti e calde strette di mano che ella mi dava un tempo, come per assicurarmi che non mi serbava rancore di nessuna offesa! Ora forse la sua mano è impura?” E, mentre le appuntavo il velo, provai una repulsione istantanea al pensiero della possibile impurità.

Ella si levò, e io l’aiutai anche a indossare la giacca. Due o tre volte i nostri occhi s’incontrarono fugacemente; ma ancóra una volta io lessi nei suoi una specie di curiosità inquieta. Ella forse domandava a sé stessa. “Perché è entrato qui? Perché si trattiene? Che significa quella sua aria smarrita? Che vuole da me? Che gli accade?”

– Permetti… un momento – disse, e uscì dalla stanza.

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