Читать книгу «Contro Ogni Nemico » онлайн полностью📖 — Джека Марса — MyBook.
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CAPITOLO CINQUE

21:45 ora legale delle Montagne Rocciose (23:45 ora legale orientale)

Penitenziario federale ADX Florence (Supermax) – Florence, Colorado

“Eccoci,” disse la guardia. “Casa dolce casa.”

Luke percorreva i bianchi corridoi in calcestruzzo della prigione più sicura degli Stati Uniti. Le due alte e massicce guardie in uniforme marrone lo fiancheggiavano. Erano quasi identiche, quelle guardie, con un taglio a spazzola militare da recluta, grosse spalle e braccia, e un torso ancora più grosso. Avanzavano, i corpi tesi e il baricentro alto, come degli aggressivi attaccanti di una squadra di football fuori dallo sport da un po’ di tempo.

Non erano in forma nel senso tradizionale del termine, ma Luke riteneva che avessero la stazza e la figura perfette per il loro lavoro. A stretto contatto, potevano mettere un bel peso addosso a un prigioniero che faceva resistenza.

I passi riecheggiavano sul pavimento in pietra mentre i tre uomini superavano le porte d’acciaio chiuse e senza finestre di dozzine di celle. Ciascuna porta aveva una stretta apertura vicino al fondo, come una fessura per la posta, attraverso la quale le guardie potevano far passare i pranzi e le cene ai prigionieri. Ciascuna aveva anche due finestrelle con vetro rinforzato in acciaio che davano sul passaggio. Luke non guardò in nessuna delle finestre che superarono.

Da qualche parte in quel corridoio, un uomo urlava. Sembrava in agonia. Urlava e urlava, senza dar segno di finire. Era notte, presto le luci sarebbero state spente, e un uomo gridava. Luke pensava quasi di riuscire a rappresentarsi le parole incorporate in quel rumore.

Guardò una delle guardie.

“Sta bene,” disse la guardia. “Davvero. Non sta soffrendo. Ulula e basta.”

L’altra guardia parlò. “La solitudine ne fa uscire pazzi alcuni.”

“La solitudine?” disse Luke “Volete dire l’isolamento?”

La guardia si strinse nelle spalle. “Sì.” Per lui era una questione semantica. Alla fine del turno andava a casa sua. Mangiava da Denny’s, a vederlo, e attaccava bottone con qualcuno. Portava la fede all’anulare della spessa mano sinistra. Aveva una moglie, probabilmente dei figli. Quell’uomo aveva una vita fuori da quelle mura. E i prigionieri? Non tanto.

Aveva alloggiato lì un gotha di furfanti e cattivi, Luke lo sapeva. L’Unabomber Ted Kaczynski era un residente attuale, così come Dzhokhar Tsarnaev, il fratello sopravvissuto dei due attentatori della maratona di Boston. Il capo mafioso John Gotti aveva vissuto lì per anni, così come il suo violento sgherro, Sammy “The Bull” Gravano.

Era una violazione delle regole del complesso a permettere a Luke di superare la stanza delle visite, ma quelle non erano esattamente le ore di visita, e si trattava di un caso speciale. Un prigioniero aveva delle informazioni da offrire, ma aveva insistito nel vedere Luke personalmente – non a un telefono con uno spesso vetro divisorio tra di loro, ma faccia a faccia, e uomo a uomo, nella cella. La presidente degli Stati Uniti stessa aveva chiesto a Luke di accettare l’incontro.

Si fermarono di fronte a una porta bianca, una delle tante. Luke sentì il cuore perdere un colpo. Era nervoso, solo un pochino. Non cercò di sbirciare l’uomo attraverso le finestre minuscole. Non voleva vederlo così, come un topo che viveva in una scatola da scarpe. Voleva che l’uomo fosse leggendario, immenso.

“È mio compito informarla,” cominciò una delle guardie, “che i prigionieri che si trovano qui vengono considerati tra i più violenti e pericolosi attualmente presenti nel sistema correzionale federale degli Stati Uniti. Se sceglie di entrare in questa cella e declina…”

Luke sollevò una mano. “Non serve. Conosco i rischi.”

La guardia fece di nuovo spallucce. “Si accomodi pure.”

“Per la cronaca, non voglio che la conversazione venga registrata,” disse Luke.

“Tutte le celle vengono riprese dalle telecamere di sorveglianza ventiquattr’ore al giorno,” disse adesso la guardia. “Ma non c’è audio.”

Luke annuì. Non credette a una parola. “Bene. Urlerò, se mi serve aiuto.”

La guardia sorrise. “Non sentiremo.”

“Allora agiterò le mani.”

Entrambe le guardie risero. “Sarò in fondo al corridoio,” disse uno dei due. “Picchi forte sulla porta quando vuole uscire.”

La porta fece un fragoroso suono metallico quando venne aperta la serratura, poi si aprì, mansueta. Da qualche parte, qualcuno li osservava davvero.

Aprendosi, la porta mostrò una minuscola e tetra cella. La prima cosa che Luke notò fu la toilette di metallo. Sopra aveva un rubinetto per l’acqua, in una strana combinazione, ma che aveva un senso logico, presumeva lui. Tutto il resto era fatto di pietra, e fissato sul luogo. Una stretta scrivania di pietra si estendeva dal muro di calcestruzzo, con un rotondo sgabello di pietra come un piccolo piolo che ne usciva dal pavimento di fronte.

La scrivania era piena di carte, qualche libro e quattro o cinque tozze matite come quelle che usano i giocatori di golf per tenere il punteggio. Come la scrivania, il letto era stretto e fatto di pietra. Lo copriva un sottile materasso, e c’era una coperta verde che sembrava fatta di serge di lana, o di un materiale ugualmente irritante. C’era una stretta finestra sulla parete in fondo, con una cornice verde alta forse sessanta centimetri e larga quindici. Fuori dalla finestra era buio, tranne che per una malaticcia luce gialla che si diffondeva nella cella da una vicina lampada ad arco al sodio montata sul muro esterno. Non c’era modo di coprire la finestra.

Il prigioniero era in piedi, in una tuta arancione, l’ampia schiena che dava loro le spalle.

“Morris,” disse la guardia. “C’è il tuo visitatore. Fammi il favore di non ucciderlo.”

Don Morris, ex colonnello dell’esercito degli Stati Uniti e comandante della Delta Force, fondatore ed ex direttore dello Special Response Team dell’FBI, si voltò lentamente. Il suo viso sembrava più rugoso di prima e i capelli sale e pepe erano diventati totalmente bianchi. Ma gli occhi erano profondi, acuti e attenti, e il petto, le braccia, le gambe e le spalle sembravano più forti che mai.

La sua bocca fece una specie di sorriso, che però non raggiunse gli occhi.

“Luke,” disse. “Grazie di essere venuto. Benvenuto a casa mia. Ventisei metri quadrati, approssimativamente due e venti per tre e sessanta.”

“Ciao, Don,” disse Luke. “Mi piace proprio come hai sistemato questo posto.”

“Ultima occasione di cambiare idea,” disse una delle guardie alle sue spalle.

Luke scosse la testa. “Penso che starò bene.”

Gli occhi di Don caddero sulle guardie. “Lo sapete chi è quest’uomo, vero?”

“Lo sappiamo. Sì.”

“Allora presumo,” disse Don, “che possiate immaginare quanto poco pericolo io rappresenti per lui.”

La porta si chiuse sferragliando. Luke provò qualcosa, mentre si fissavano attraverso la cella – avrebbe potuto chiamarla nostalgia. Don era stato il suo comandante e il suo mentore alla Delta. Quando Don aveva avviato lo Special Response Team, aveva assunto Luke come primo agente. In molti modi, e per più di dieci anni, Don era stato come un padre per lui.

Ma ormai non più. Don era stato uno dei cospiratori del complotto per uccidere il presidente degli Stati Uniti e rovesciare il governo. Era stato connivente nel rapimento della moglie e del figlio di Luke. Aveva saputo in anticipo della bomba che aveva ucciso più di trecento persone a Mount Weather. Davanti a Don si stagliava la pena di morte, e Luke non riusciva a pensare a una persona che più meritasse quel destino.

I due si strinsero la mano, e Don mise una mano sulla spalla di Luke, solo per un secondo. Era il gesto imbarazzante di un uomo ormai non più abituato al contatto umano. Luke sapeva che i prigionieri del Supermax raramente toccavano altri esseri umani.

“Grazie di tutte le visite che hai fatto e delle lettere che hai mandato,” disse Don. “È stato di conforto sapere che il mio benessere è una tale priorità per te.”

Luke scosse la testa. Quasi sorrise. “Don, fino a ieri pomeriggio non sapevo neanche dove ti tenessero. E non me ne importava niente. Poteva anche essere un buco per terra. Poteva essere sul fondo di Mount Weather.”

Don annuì. “Quando perdi, con te possono farci tutto quello che vogliono.”

“Ampliamente meritato, in questo caso.”

Don fece un cenno al piolo di pietra che spuntava come un fungo dal pavimento. “Perché non ti accomodi?”

“Resto in piedi. Grazie.”

Don fissò Luke, la testa gli si inclinò interrogativamente di lato. “Non ho da offrire molta ospitalità, Luke. È tutto qua.”

“Perché dovrei accettare la tua ospitalità, Don?”

Gli occhi di Don non si voltarono da un’altra parte. “Scherzi? Per i vecchi tempi. Come gesto di ringraziamento per averti fatto da mentore nella Delta e per averti dato il tuo lavoro attuale. Pensa a una ragione, figliolo.”

“Esattamente quello che dico io, Don. Quando penso a te, penso a mio figlio, e a mia moglie, che tu hai rapito.”

Don sollevò le mani. “Io non c’entravo niente. Te lo giuro. Se fosse stato per me, non avrei mai permesso che venisse fatto del male a Gunner o Becca. Sono come il mio sangue, come la mia famiglia. Ti avevo avvertito perché volevo proteggerli, Luke. L’ho scoperto dopo che era già accaduto. Mi dispiace che sia successo. Non c’è nulla nella mia lunga carriera che rimpianga di più.”

Luke scrutò gli occhi di Don, il suo linguaggio del corpo, in cerca di… qualcosa. Stava mentendo? Stava dicendo la verità? Che cosa credeva, poi, Don? Chi era quell’uomo, a cui Luke un tempo pensava di voler bene?

Luke sospirò. Avrebbe accettato l’esigua ospitalità dell’uomo. Quello gliel’avrebbe dato, e quella notte se ne sarebbe rimasto sveglio a letto a chiedersi perché mai l’avesse fatto.

Si accovacciò sulla bassa pietra.

Don sedette sul letto. Tra loro si allungò una pausa. Non c’era nulla di bello.

“Come va l’SRT?” disse alla fine Don. “Immagino che abbiano fatto direttore te, no?”

“Me l’hanno chiesto, ma io ho rifiutato. L’SRT è finito, disperso al vento. La maggior parte degli agenti è stata riassorbita dal Bureau vero e proprio. Ed Newsam è alla squadra di recupero ostaggi. Mark Swann è andato all’NSA. Io mi tengo parecchio in contatto con loro – li prendo in prestito per un’operazione di tanto in tanto.”

Luke vide un flash di qualcosa negli occhi di Don, che scomparve quasi prima di palesarsi. Il suo bambino, lo Special Response Team dell’FBI, il culmine del lavoro di una vita, era stato smantellato. Non l’aveva saputo? Luke presumeva di no.

“Trudy Wellington è scomparsa,” disse Luke.

Negli occhi di Don apparve qualcos’altro, che stavolta rimase lì. Se indugiava, voleva dire che Don voleva che lui lo vedesse. Luke non capiva se si trattasse di un’emozione, di un ricordo o di un’informazione. Era bravo a leggere la gente, ma Don era una vecchia spia. La sua mente e il suo cuore erano libri chiusi.

“Tu non ne sai niente, vero, Don?”

Don si strinse nelle spalle, offrì un mezzo sorriso. “La Trudy che conoscevo era molto intelligente. Teneva le antenne belle alte. Se devo tirare a indovinare, dico che ha sentito un brontolio distante che l’ha infastidita, e che è scappata prima che si avvicinasse.”

“Le hai parlato?”

Don non rispose.

“Don, non ha senso pensare di ostacolarmi. Posso fare una telefonata e scoprire con chi hai parlato, chi ti ha scritto e che cosa c’era nella lettera. Non hai privacy. Hai parlato con Trudy o no?”

“Sì, ci ho parlato.”

“E cosa le hai detto?” disse Luke.

“Le ho detto che la sua vita era in pericolo.”

“Sulla base di cosa?”

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