21:15 tempo medio di Greenwich (16:15 ora legale orientale)
Quartiere di Molenbeek
Bruxelles, Belgio
Il magro sapeva parlare olandese.
“Ga weg,” disse sottovoce. Vattene.
Non si chiamava Jamal. Ma quello era il nome che a volte dava alle persone, e il nome con cui molta, molta gente era finita a conoscerlo. La maggior parte della gente lo chiamava Jamal. Alcuni lo chiamavano lo Spettro.
Se ne stava nell’ombra vicino a un bidone della spazzatura traboccante, appena dentro a una stretta strada di ciottoli, a fumare una sigaretta osservando una macchina della polizia parcheggiata sulla via principale. La stradina nella quale si trovava era poco più di un vicolo, e standosene discosto nell’ombra si sentiva sicuro che nessuno potesse vederlo. I viali e i marciapiedi e i vicoli vuoti dei famigerati bassifondi musulmani erano bagnati da una fitta pioggia gelida che aveva smesso di scendere forse una decina di minuti prima.
Quel posto era una città fantasma, quella notte.
Sul viale, l’auto della polizia si scostò dal marciapiede e si immise silenziosamente in strada. Non c’era altro traffico.
Una punta di agitazione – era quasi paura – percorse il corpo di Jamal mentre guardava la polizia. Non avevano ragione di infastidirlo. Non stava infrangendo nessuna legge. Era un uomo ben vestito in abito scuro e scarpe di pelle italiane, con il viso ben rasato. Poteva essere un uomo d’affari, o il proprietario di quei bassi caseggiati tutto intorno a lui. Non era il tipo che la polizia casualmente fermava e perquisiva. Eppure Jamal era già caduto nelle mani delle autorità in passato – non lì in Belgio, ma in altri posti. Erano state esperienze sgradevoli, per usare un eufemismo. Una volta aveva trascorso dodici ore ad ascoltarsi urlare di agonia.
Scosse il capo per scacciare quei pensieri oscuri, finì la sigaretta in tre profondi tiri, ignorò il bidone della spazzatura e lanciò il mozzicone a terra. Si voltò per percorrere il vicolo. Superò un cartello rotondo e rosso con una striscia bianca orizzontale – VIETATO L’ACCESSO. La strada era troppo stretta per il traffico automobilistico. Se la polizia avesse improvvisamente deciso di volerlo inseguire, sarebbe stata costretta a muoversi a piedi. Oppure a fare un giro di molti isolati. Per quando fossero tornati, lui non ci sarebbe stato più.
Dopo cinquanta metri, svoltò rapidamente e aprì con la chiave l’entrata di un edificio particolarmente fatiscente. Salì tre strette rampe finché le scale non morirono su una spessa porta rinforzata in acciaio. Le scale erano vecchie, fatte di legno e assurdamente contorte. L’intera rampa sembrava attorcigliarsi di qua e di là come una caramella toffee, dando la sensazione della casa dei divertimenti di un luna park.
Jamal fece il pugno e batté contro la porta pesante, e i colpi arrivarono secondo un’attenta sequenza:
BANG-BANG. BANG-BANG.
Si fermò per qualche secondo.
BANG.
Si aprì uno spioncino e vi apparve un occhio. L’uomo dall’altra parte grugnì, verificando chi fosse. Jamal ascoltò la guardia girare chiavi nelle serrature, poi rimuovere la sbarra in acciaio incuneata al pavimento sul fondo della porta. Per la polizia sarebbe stato molto difficile entrare in quell’appartamento, se i loro sospetti mai vi fossero caduti sopra.
“As salaam alaikum,” disse Jamal entrando.
“Wa alailkum salaam,” disse l’uomo che aveva aperto la porta. Era alto e massiccio. Indossava una lercia t-shirt senza maniche, pantaloni da lavoro e stivali. Una folta barba mal tenuta gli copriva la faccia, andando incontro alla massa di capelli neri e ricci del cuoio capelluto. Aveva gli occhi spenti. Era tutto ciò che l’uomo magro non era.
“Come sembrano messi?” disse Jamal in francese.
L’uomo grosso fece spallucce. “Bene, penso.”
Jamal attraversò una tenda di perline, percorse un breve corridoio ed entrò in una stanza piccola – che sarebbe stata un soggiorno se quel posto fosse stato occupato da una famiglia. La squallida stanza era piena di uomini giovani, tutti con addosso t-shirt, magliette delle loro squadre di calcio europee preferite, pantaloni della tuta e sneakers. Faceva caldo ed era umido nella stanza, forse per la prossimità di tutti quei corpi in uno spazio ristretto. Lì dentro sapeva da calzini sudati insieme a odore di corpi.
Nel centro della stanza, su un ampio tavolo di legno, si trovava un dispositivo fatto d’argento a forma di proiettile. Era lungo circa un metro e largo meno di mezzo metro. Jamal aveva trascorso del tempo in Germania e in Austria, e quel dispositivo gli ricordava un piccolo fusto di birra. In realtà tranne che per il peso – era piuttosto leggero – era una replica molto, molto buona di una testata nucleare americana W80.
Due giovani erano al tavolo, mentre gli altri giravano intorno e osservavano. Uno se ne stava in piedi davanti a un piccolo laptop montato all’interno di una valigia d’acciaio. La valigia aveva un pannello che correva lungo il laptop – c’erano due interruttori, due luci al LED (una rossa e una verde) e un quadrante costruiti nel pannello. Un cavo andava dalla valigia a un altro pannello lungo il lato della testata. L’intero dispositivo – la valigia e il laptop in essa contenuto – erano conosciuti come un UC 1583. Era un dispositivo progettato per un unico compito – comunicare con un’arma nucleare.
Il secondo uomo era curvo su una busta bianca sul tavolo. Portava un costoso microscopio digitale sull’occhio, e lentamente esaminava la busta, in cerca di ciò che, lo sapeva, doveva esserci – un minuscolo puntino, non più grande di quello che viene posto alla fine di una frase, nel quale era incorporato il codice che avrebbe armato e attivato la testata.
Jamal si avvicinò per guardare.
Il giovane con il microscopio lentamente esaminava la busta. Ogni qualche secondo si copriva il microscopio con la mano e dava un’occhiata su una scala maggiore con l’occhio scoperto, in cerca di macchie d’inchiostro, imperfezioni, di qualsiasi puntino probabilmente sospetto. Poi si rituffava nel lavoro col microscopio.
“Aspettate,” sussurrò sottovoce. “Aspettate…”
“Dai,” disse il suo partner con un’aria di impazienza nella voce. Venivano giudicati non solo per l’accuratezza, ma per le tempistiche. Quando fosse giunto il loro momento, sarebbero stati costretti ad agire molto rapidamente.
“Ce l’ho.”
Adesso alle strette c’era il partner. A memoria, il giovane digitò una sequenza che abilitava il laptop ad accettare un codice di armamento. Gli tremavano le mani. Fu abbastanza nervoso da pasticciare la sequenza al primo tentativo, cancellare, e ricominciare da capo.
“Okay,” disse. “Dimmi.”
Molto lentamente e chiaramente, l’uomo col microscopio lesse una sequenza di dodici numeri. L’altro digitò ogni numero a mano a mano che veniva detto. Dopo dodici, il primo disse “Finito.”
Adesso l’uomo al laptop passò per un’altra breve sequenza, azionò i due interruttori e girò la manopola. La luce al LED verde sul pannello si accese.
Il giovane sorrise e si voltò verso il suo istruttore.
“Armato e pronto al lancio,” disse. “Se Dio vuole.”
Anche Jamal sorrise. Lì lui era un osservatore – era venuto a vedere i progressi delle reclute. Erano credenti veri che si preparavano per quella che probabilmente era una missione suicida. Se i codici venivano inseriti erroneamente, le testate potevano semplicemente spegnersi – ma potevano anche autodistruggersi, diffondendo una letale nuvola radioattiva e uccidendo chiunque nelle vicinanze.
Nessuno era sicuro di cosa sarebbe accaduto nell’eventualità di un codice sbagliato. Erano tutte voci e speculazioni. Gli americani tenevano ben taciuti quei segreti. Ma non aveva importanza. Quei giovani erano disposti a morire, e probabilmente era quello che avrebbero fatto. A prescindere dai codici, quando gli Stati Uniti avrebbero scoperto che le loro preziose armi nucleari erano state rubate, non avrebbero risposto con gentilezza. No. La bestia gigante si sarebbe scatenata, i tentacoli in volo, a distruggere qualsiasi cosa sul suo cammino.
Jamal annuì e recitò una silenziosa preghiera di ringraziamento. Era stato un lavoraccio mettere insieme quel progetto. Avevano i mujaheddin necessari – comunque i giovani disposti a morire per la fede erano facili da acquisire.
Gli altri elementi erano più difficili. Presto avrebbero avuto le piattaforme di lancio e i missili – Jamal se ne sarebbe occupato lui stesso. Erano stati promessi i codici, ed era sicuro che li avrebbe ricevuti come descritto. Poi tutto ciò di cui avrebbero avuto bisogno sarebbero state le testate stesse.
E ben presto, se quello era il volere di Allah, avrebbero avuto anche quelle.
19 ottobre
13:15 ora legale orientale
Contea di Fairfax, Virginia – sobborghi di Washington, DC
Luke aveva affittato un elicottero per andarsene dal canyon insieme a Gunner. Era riuscito a rimediare un nuovo volo, e aveva guidato come un pazzo per arrivare a Phoenix in tempo per prendere l’aereo. Per tutto il tempo aveva aggirato le domande di Gunner in merito alla loro brusca partenza.
“Tua mamma ti vuole a casa, Mostriciattolo. Le manchi, e non vuole che salti così tanti giorni di scuola.”
Sul sedile del passeggero, con l’autostrada che sfrecciava fuori dal finestrino, Luke vedeva le antenne di Gunner contorcersi come impazzite. Era un ragazzino intelligente. Stava già cominciando a capire quando le persone mentivano. Luke odiava – odiava! – essere tra i primi a farsi beccare da Gunner.
“Pensavo che avessi sistemato tutto con la mamma prima che partissimo.”
“E l’ho fatto,” disse Luke con un’alzata di spalle. “Ma le cose sono cambiate. Senti, ne parliamo quando arriviamo, okay?”
“Okay, papà.”
Ma Luke lo capiva che niente era okay. Ben presto sarebbe stato molto meno okay.
Adesso, due giorni dopo, eccolo seduto sul grande e sontuoso sofà del soggiorno della sua ex casa. Gunner era a scuola.
Luke guardò la stanza. Una volta lui e Becca avevano avuto una vita fantastica, lì. Era una casa bellissima, moderna, come uscita da una rivista di architettura. Il soggiorno, con le sue finestre che andavano dal pavimento al soffitto, era come una scatola di vetro. Si immaginò sotto Natale – seduti in quella sconvolgente stanza infossata, l’albero nell’angolo, il caminetto acceso, la neve che cadeva tutt’intorno, come se fossero fuori, quando invece erano dentro, caldi e comodi.
Dio, che bello. Ma quei giorni se n’erano andati.
Becca si agitava frenetica, puliva, spolverava, metteva via varie cose. A un certo punto della conversazione, aveva preso l’aspirapolvere dall’armadio e l’aveva fatto partire. Si trovava in un pessimo stato psicologico. Lui aveva cercato di abbracciarla appena arrivato, ma lei si era fatta di legno, le braccia sui fianchi.
“Ti avevo superato, lo sapevi?” disse adesso. “Ero pronta ad andare avanti con la mia vita. Sono anche uscita per qualche caffè con qualcuno mentre Gunner era con te, quest’estate. E perché no? Sono ancora giovane, giusto?”
Scosse la testa amaramente. Luke non disse nulla. Che cosa c’era da dire?
“Vuoi sapere una cosa su di te, Luke? Il primo con cui sono uscita era un insegnante in vacanza, un tipo carino, e mi ha chiesto che lavoro fai. Gli ho detto la verità. Oh, il mio ex marito è una specie di assassino segreto del governo. È stato nella Delta Force. E sai cos’è successo dopo? Te lo dico io. Non è successo niente. Quella è stata l’ultima volta che l’ho sentito. Ha sentito Delta Force ed è scomparso. Tu spaventi la gente, Luke. È questo che voglio dire.”
Luke si strinse nelle spalle. “Perché non dici che faccio un altro lavoro? Non è che io abbia intenzione di…”
“L’ho fatto. Una volta capito, ho cominciato a dire alla gente che fai l’avvocato.”
Per un attimo Luke si chiese che cosa significasse “gente”. Era uscita con qualcuno ogni giorno? Con due al giorno? Scosse la testa. Non erano più affari suoi, fin quando fosse stata al sicuro. E anche così… stava morendo. Non sarebbe più stata al sicuro, e non c’era nulla che lui potesse fare.
Tra loro passò una lunga pausa.
“Vuoi una seconda opinione?”
Becca annuì. Sembrava intorpidita, in stato di shock, come i sopravvissuti a disastri e atrocità. Luke l’aveva visto moltissime volte. La cosa fantastica era che sembrava anche essere assolutamente in salute. Un po’ più magra del solito, ma nessuno avrebbe mai indovinato che aveva il cancro. Probabilmente avrebbero pensato che si fosse messa a dieta.
È la chemio a farli sembrare malati. La metà delle volte, è anche ciò che li uccide.
“Ho già avuto una seconda opinione da un mio vecchio collega. All’inizio della prossima settimana ne avrò una terza. Se è congruente con quello che ho già sentito, allora entro giovedì comincio le procedure.”
“La chirurgia è un’opzione?” disse Luke.
Scosse la testa. “È troppo tardi. Il cancro è ovunque…” La voce le morì. “Ovunque. La chemioterapia è l’unica opzione. Se esaurisco i farmaci approvati della chemio, allora forse test clinici, se sono ancora viva.”
Ricominciò a piangere. Era in piedi in mezzo al soggiorno, miserabile, la faccia nascosta nelle mani, il corpo scosso dai singhiozzi. A Luke sembrava una ragazzina. Lo colpiva vederla ridotta così. Era stato circondato dalla morte molto in vita sua, ne aveva vista troppa, ma quello? Non poteva essere vero. Si alzò, e poi andò da lei. L’avrebbe confortata, se ci fosse riuscito.
Lei lo spinse via, con violenza, come una bambina che fa a pugni al parchetto.
“Non toccarmi! Stammi lontano!” Lo indicò, la faccia una furente maschera di rabbia. “Sei tu!” urlò. “Tu fai ammalare le persone, non te ne accorgi? Rubi tutto l’ossigeno della stanza. Tu e le tue schifezze da supereroe.”
Fece ondeggiare la testa da un lato all’altro, prendendolo in giro. “Oh, scusami, tesoro,” disse con una bassa e caricaturale voce maschile. “Devo scappare a salvare il mondo. Non si sa se da qui a tre giorni sarò vivo o morto. Cresci il bambino per me, okay? Sto solo facendo il mio dovere patriottico.”
Ribolliva di rabbia. La voce le tornò normale. “Fai così perché è divertente, Luke. Fai così perché sei irresponsabile. Te la godi. Per te, conseguenze non ci sono. Non ti interessa se vivi o muori, e tutti gli altri devono avere a che fare con le ricadute e lo stress.”
Scoppiò in lacrime. “Con te ho finito. Finito.” Agitò una mano nella sua direzione. “Sono sicura che l’uscita ti ricordi dov’è. Quindi vattene. Okay? Va’ via. Lasciami morire in pace.”
Con ciò, lasciò la stanza. Trascorse un momento di silenzio, e poi Luke la udì singhiozzare nella camera padronale in fondo al corridoio.
Rimase lì in piedi per un lungo istante, non sapendo che fare. Gunner sarebbe stato a casa in un paio di ore. Non era una buona idea lasciarlo lì con Becca, ma non sapeva se aveva una gran scelta. Aveva lei la custodia. Lui aveva il diritto di visita. Se in quel momento si fosse portato via Gunner, senza il permesso di lei, tecnicamente sarebbe stato rapimento.
Sospirò. Quando mai la mancanza dei diritti legali di una situazione l’aveva fermato?
Luke era smarrito. Sentiva l’energia abbandonarlo. E ancora non avevano spiegato nulla al bambino. Forse avrebbe dovuto chiamare i genitori di Becca e parlarci. La verità era che Becca aveva gestito quasi tutti i dettagli domestici durante la loro relazione. Forse aveva ragione su di lui – lui era più a suo agio fuori nel mondo, a giocare a guardie e ladri con persone molto pericolose. C’erano delle persone che si preoccupavano per lui, lo sapeva, ma non se ne curava. Che razza di persona viveva così? Forse una persona che non era mai cresciuta.
Sul tavolo di vetro vicino al sofà, il suo telefono cominciò a squillare. Lo guardò. Come spesso accadeva, sembrava quasi che fosse vivo, una vipera pericolosa da toccare.
Lo raccolse. “Stone.”
In linea c’era una voce maschile.
“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”
Alzò lo sguardo, e Becca adesso stazionava sulla soglia. Apparentemente aveva sentito il telefono suonare. Era tornata di nuovo, pronta ad ascoltare la conversazione per confermare tutti i peggiori sentimenti che provava nei suoi confronti. Per un secondo giusto, Luke si sentì pieno di livore nei suoi confronti – Becca aveva intenzione di aver ragione su di lui, a prescindere. Fin dentro alla tomba, aveva intenzione di coglierlo in flagrante.
Adesso giunse la voce di Susan Hopkins.
“Luke, ci sei?”
“Salve, Susan.”
“Da quanto tempo, agente Stone. Come stai?”
“Sto bene,” disse. “Tu?”
“Bene,” disse, ma il tono della voce diceva qualcos’altro. “Tutto okay. Senti, mi serve il tuo aiuto.”
“Susan…” cominciò lui.
“È una cosa di una giornata, ma è molto importante. Mi serve qualcuno che possa chiuderla rapidamente, e con assoluta discrezione.”
“Di cosa si tratta?”
“Non posso parlarne al telefono,” disse. “Puoi venire?”
Gli crollarono le spalle. Accidenti.
“Va bene.”
“Tra quanto puoi arrivare?”
Guardò l’orologio. Gunner sarebbe stato a casa in un’ora e mezza. Se voleva trascorrere del tempo con suo figlio, la riunione avrebbe dovuto aspettare. Se andava alla riunione…
Sospirò.
“Arrivo il prima possibile.”
“Bene. Mi assicurerò che ti portino dritto da me.”
Luke riappese. Guardò Becca. C’era qualcosa di crudele e di derisorio nei suoi occhi. C’era un demone lì, che danzava su un lago di fuoco.
“Dove stai andando, Luke?”
“Lo sai dove sto andando.”
“Oh, non rimarrai qui per passare un po’ di tempo con tuo figlio? Non farai il buon padre? Che sorpresa. Cavolo, avrei pensato…”
“Becca, smettila. Okay? Mi dispiace che tu…”
“Perderai la custodia di Gunner, Luke. Parti di continuo in missione, no? Be’, indovina un po’. Ho intenzione di fare di te la mia missione. Quel ragazzino non lo vedrai neanche. Ci lavorerò col mio ultimo respiro. Lo cresceranno i miei, e tu non avrai accesso a lui. Lo sai perché?”
Luke puntò alla porta.
“Addio, Becca. Buona giornata.”
“Te lo dico io il perché, Luke. Perché i miei genitori sono ricchi! Adorano Gunner. E tu a loro non piaci. Pensi di poter battere i miei in una battaglia legale, Luke? Io credo di no.”
Era per metà fuori, ma si fermò e si voltò.
“È questo che vuoi fare del tempo che ti rimane?” disse. “È questo che vuoi essere?”
Lei lo fissò.
“Sì.”
Luke scosse la testa.
Non la riconosceva più, se mai l’aveva conosciuta.
E con ciò, se ne andò.
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