Читать книгу «La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке» онлайн полностью📖 — Данте Алигьери — MyBook.

Canto IV

 
Ruppemi l’alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
4 e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’ io fossi.
7 Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
10 Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
13 «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
16 E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
19 Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
22 Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.
25 Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l’aura etterna facevan tremare;
28 ciò avvenia di duol sanza martìri,
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
31 Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
34 ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
37 e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
40 Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».
43 Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
46 «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia’ io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
49 «uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
52 rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
55 Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moisè legista e ubidente;
58 Abraàm patriarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
61 e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
64 Non lasciavam l’andar perch’ ei dicessi,[5]
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
67 Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’ io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.
70 Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.
73 «O tu ch’onori scienzia e arte,
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
76 E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che sì li avanza».
79 Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
82 Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ ombre a noi venire:
sembianz’ avevan né trista né lieta.
85 Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
88 quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
91 Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
94 Così vid’ i’ adunar la bella scola[6]
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’ aquila vola.
97 Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
100 e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
103 Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’ era ’l parlar colà dov’ era.
106 Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.
109 Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
112 Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
115 Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
118 Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.
121 I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
124 Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
127 Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
130 Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
133 Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’ io Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
136 Democrito che ’l mondo a caso pone,
Diogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
139 e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
142 Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galieno,
Averoìs, che ’l gran comento feo.
145 Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
148 La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.
151 E vegno in parte ove non è che luca.
 

Canto V

 
Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
4 Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
7 Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
10 vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
13 Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
16 «O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
19 «guarda com’ entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
22 Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
25 Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
28 Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
31 La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
34 Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
37 Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
40 E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
43 di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
46 E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’ io venir, traendo guai,
49 ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
52 «La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
55 A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
58 Ell’ è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
61 L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
64 Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combattèo.
67 Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
70 Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
73 I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
76 Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
79 Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
82 Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere, dal voler portate;
85 cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
88 «O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
91 se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
94 Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
97 Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
100 Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
103 Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
106 Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
109 Quand’ io intesi quell’ anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
115 Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
118 Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
121 E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
124 Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
127 Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
130 Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
133 Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
136 la bocca mi baciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
139 Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’ io morisse.
142 E caddi come corpo morto cade.