Adele teneva la fronte aggrottata mentre guardava il suo portatile, comoda nel suo posto in prima classe fornitole dall’Interpol. L’aereo vibrava sfrecciando nel cielo, ma Adele era concentrata sullo schermo del computer che illuminava la piccola porzione della sua cabina.
Si trovò a giocherellare nervosamente con la tracolla della sua borsa porta-computer che stava appoggiata sul sedile vuoto accanto a sé, mentre continuava a scrutare le informazioni che aveva davanti. Una volta letto il file di un caso, raramente ne dimenticava i dettagli.
Si mise più comoda, appoggiandosi alla parete curva in plastica bianca, gli occhi che scattavano dai paragrafi alle foto.
Due morti fino ad ora. Tre giorni tra una vittima e l’altra. Un ritmo rapido, anche per un serial killer. Nessuna prova materiale in assoluto. Un rene mancante nella prima vittima e un rapporto medico legale ancora pendente per la seconda. Anche a questa poteva forse mancare un rene?
Giovani donne, entrambe. Espatriate. Americane che ora vivevano in Francia. Arrivate di recente. Entrambe uccise così velocemente da non aver reagito. Quella era l’unica spiegazione della natura netta dei tagli. Nessuna ferita slabbrata, nessun segno di colluttazione. Un momento le giovani donne erano vive nei loro appartamenti, e l’attimo dopo quella vita gli era stata portata via, come per opera di un fantasma.
Adele dubitava che le donne se ne fossero addirittura rese conto. Non era un grosso indizio, non ancora per lo meno. Rimase comunque concentrata, con la tendina dell’oblò abbassata, ascoltando il vibrare dei motori. Socchiuse gli occhi e continuò ad analizzare il file. Ancora, e ancora… e ancora.
Era riuscita a collegarsi al Wi-Fi dell’aeroporto Charles De Gaulle, e le sue sopracciglia si rilassarono quando vide l’ultimo messaggio che le aveva mandato Robert Henry, il suo vecchio mentore e amico. Diceva: Scusa, cara, non verrò a prenderti io. Hanno mandato un altro agente. Poi aveva incluso un sacco di emoji e faccine sorridenti.
Lei esitò e poi scrisse: Nessun problema. Ci vediamo in ufficio. Chi hanno mandato?
Nessuna risposta. Adele scosse la testa mentre accedeva al terminal centrale, accolta dall’aroma di caffè ultra-costoso e vecchi pasticcini che proveniva dai vari ristoranti dell’aeroporto. I suoi occhi si spostarono lungo una serie di negozi: uno di oggetti bizzarri e l’altro di libri. Rimise il telefono in tasca e andò velocemente verso il ritiro bagagli. L’altra volta l’avevano messa in coppia con John: probabilmente sarebbe successo di nuovo. Ma le cose erano rimaste sospese in modo impacciato dopo l’ultimo incontro. Mentre lei e Robert avevano continuato a mandarsi frequentemente messaggi durante quel mese, dopo il suo ritorno dalla Francia, John non l’aveva contattata una sola volta.
Neanche tu, le ricordò una vocina.
Ma lei la cacciò via con una leggera scrollata di spalle. Raggiunse il ritiro bagagli e vide la sua valigia che faceva il giro del nastro. Aspettò con pazienza, ma non riusciva comunque a cacciare quel senso di impaziente attesa che le opprimeva il petto.
Alla fine riuscì a recuperare il suo bagaglio, aspettando che si liberasse un posto attorno al nastro trasportatore.
Si ritrovò a sistemarsi i capelli dietro alle orecchie e a raddrizzare la postura anche mentre si avvicinava al controllo documenti e aspettava che l’agente di frontiera desse un’occhiata al suo speciale passaporto. Datti una calmata, pensò con severità. Perché era tutt’a un tratto così preoccupata del proprio aspetto? John o no, perché era così importante? Adele era più alta di molte altre donne, ma non in modo così insolito. I suoi capelli biondo scuro incorniciavano dei tratti del viso che lasciavano intendere la sua discendenza franco-americana. Esotica, secondo qualcuno. Aveva un neo solitario sopra al labbro, fonte di insicurezza da ragazza, ora non più.
Adele pensò all’ultima sera in cui aveva visto John, mentre nuotavano nella piscina privata che Robert aveva nella sua villa. Il modo in cui John si era posto all’inizio della serata, rispetto a come si era poi comportato alla fine. Aveva tentato di baciarla, no? Aveva forse frainteso il gesto? Qualsiasi fosse la risposta, quando lui si era ritratto, era sembrato offeso. E poco dopo se n’era andato.
Disobbedendo alle proprie confuse emozioni, Adele si scompigliò i capelli, mettendo appositamente in disordine i suoi ricci.
Poi, con espressione decisa in volto, passò oltre il controllo passaporti e arrivò all’area di accoglienza dell’aeroporto.
I suoi occhi scrutarono la folla, alla ricerca della figura alta e allampanata del precedente partner francese. Ma mentre guardava tutte le persone in attesa, non vide alcun segno della presenza di John. Il suo sorriso – che non si era accorta di avere stampato in faccia – divenne alquanto plastico quando il suo sguardo si posò su una donna in tailleur che stava appoggiata alla vetrata che si affacciava sulla strada.
Il sorriso scomparve del tutto quando Adele riconobbe la donna con le labbra corrucciate e i capelli argentati raccolti in uno chignon. Assomigliava a una pragmatica insegnante supplente, o forse a una suora senza divisa. Non c’era una sola ciocca di capelli che fosse fuori posto, e addirittura le rughe attorno agli occhi sembravano tendersi nel tentativo di mettersi sull’attenti.
Una agente con cui aveva lavorato in passato… Ma non John.
Questa particolare agente era stata il supervisore di Adele quando lei lavorava per il DGSI. Era anche stata declassata dal precedente incarico, uno scenario sfortunato del quale Adele si era ritrovava a sostenere la colpa. Tutto lo sdegno e l’impazienza erano visibili in ogni sfumatura degli occhi dell’agente Sophie Paige, ma almeno la donna alzò una mano e fece un rapido gesto indirizzato ad Adele per richiamare la sua attenzione.
Non un gesto di saluto, ma più uno di richiamo, come un padrone con il suo cane. Adele rimase impietrita un secondo, sentendo la gente che le passava accanto per andare a salutare i proprio familiari o amici. L’ambiente era ravvivato da risate, dal rumore di corpi che si abbracciavano, da mormorii sommessi di viaggiatori esausti che se ne andavano dall’aeroporto e correvano verso taxi o auto.
Per un brevissimo momento, Adele dovette resistere all’urgenza di fare dietrofront e tornare sull’aereo, lasciando Sophie Paige e il suo cipiglio lì vicino alla vetrata.
Ma alla fine raccolse un residuo di coraggio, si infilò i capelli dietro alle orecchie con rapidi gesti furtivi e avanzò verso la figura dell’agente che era stata suo supervisore e che ora le faceva da partner.
Portata fuori dal centro di Parigi, nei sobborghi nord-occidentali della zona dell’Ile-de-France, Adele teneva gli occhi fissi davanti a sé mentre l’auto si fermava al quarto piano del parcheggio del DGSI. Il tragitto pomeridiano era proceduto nel più completo silenzio. Ora l’agente Paige uscì bruscamente dal veicolo, dicendo qualcosa su un incontro con Foucault. Lasciò Adele da sola a farsi strada attraverso la sicurezza per poi arrivare all’ufficio del suo vecchio mentore.
Entrare nell’ufficio di Robert fu un sollievo.
Adele poté sentire le spalle che si rilassavano come se le avessero tolto di dosso un peso, quando passò attraverso la porta dopo aver bussato delicatamente. La giornata di viaggio le pesava ancora addosso, ma il suo umore si sollevò mentre scrutava la familiare stanza. Le pareti avevano ancora le stesse vecchie foto incorniciate di auto da corsa e, sotto di esse, c’erano le mensole con polverosi tomi rilegati in pelle. Ora c’erano due scrivanie nella stanza. La seconda era stata posizionata accanto alla finestra, con una sedia girevole dallo schienale alto, rivestita in pelle, piazzata subito dietro. Sulla scrivania, una targhetta dorata diceva Adele Sharp.
Sentendo un uomo schiarirsi la gola, Adele riportò l’attenzione alla prima scrivania e al suo occupante.
Robert Henry era già in piedi. Si alzava spesso in piedi quando una donna entrava nella sua stanza. L’uomo, basso di statura e con lunghi baffi arricciati tinti di nero, teneva la schiena dritta. Indossava un abito che gli calzava perfettamente e che Adele sospettava fosse stato realizzato su misura per lui. Robert aveva origini benestanti: il lavoro al DGSI non gli serviva, ma a lui piaceva. Forse questo era il motivo per cui possedeva una delle migliori schede al dipartimento. Robert un tempo aveva giocato a calcio per una squadra semi-professionista in Italia, ma era tornato in Francia quando era stato assoldato dal governo francese, ben prima che venisse fondato il DGSI.
Fisso Adele per un momento, ma i suoi occhi luccicarono, tradendo il sorriso che teneva nascosto dietro le labbra.
“Ciao,” disse Adele, incapace lei stessa di trattenere un sorriso.
A quel punto Robert Henry le sorrise, mostrando una schiera di denti perfettamente bianchi, dove però due erano mancanti. Adele aveva sentito molte storie su come avesse perso quei denti, una più improbabile dell’altra.
Si guardarono negli occhi da una parte all’altra della stanza, osservandosi per un momento.
Poi Adele disse: “Usi troppi emoji.” Parte del cattivo umore di prima iniziava a stemperarsi di fronte al vecchio mentore e amico.
Robert tirò su con il naso. “La considero una forma d’arte.”
“Uhm,” disse lei. “Non eri stato tu a dirmi che l’avvento dei cartoni animati era stato la morte della cultura?”
Robert allargò le spalle e sollevò il mento, quindi rispose: “Un uomo raffinato sa come ammettere di essersi sbagliato.”
Il sorrisino appena abbozzato di Adele si trasformò in un sorriso bello e proprio. Robert Henry era stato per lei come un padre per molti anni. Il suo padre vero non era particolarmente affettuoso, ma Robert era un tipo capace di mettere da parte i propri modi per assicurarsi che lei si sentisse accolta e confortata. Robert possedeva una villa, ma ci viveva da solo e accoglieva spesso con gioia l’opportunità di avere degli ospiti. Adele sarebbe stata da lui fintanto che si sarebbe fermata in Francia.
“Ci hai messo un po’,” le disse Robert, guardando l’orologio. Era di luccicante argento, il genere di oggetto che si sarebbe normalmente visto al polso di un banchiere. Robert si sistemò i gemelli della camicia e spinse l’orologio sotto il bordo dei polsini perfettamente stirati.
Adele posò la valigia contro lo stipite della porta e appoggiò sul pavimento la borsa del computer. “Chiunque abbia programmato il mio volo, mi ha fatto fare uno scalo di tre ore a Londra,” disse. “Poi c’è voluto un po’ per arrivare alla macchina: siamo dovute andare a piedi dall’altra parte dell’aeroporto. Una persona più meschina penserebbe che lei l’abbia fatto apposta, giusto per infastidirmi.”
Robert si accigliò. “Lei? Con chi ti ha messa a lavorare, Foucault?”
Invece di rispondere, Adele attraversò la stanza e allargò le mani, abbracciando l’amico. Lei non era altissima, ma Robert era quasi dieci centimetri più basso di lei. Lo tenne stretto a sé e sentì un piacevole calore nel petto. Era più piccoletto di quanto ricordasse. Quasi… fragile. Anche se Robert si tingeva baffi e capelli, Adele non poteva trascurare il fatto che stesse invecchiando. Sciolse l’abbraccio e gli sorrise ancora. “Ho sentito che lavoreremo nei pressi del tuo ufficio,” gli disse.
Robert le diede una pacca sulla spalla con gesto confortante. “Sì, quella è tua,” disse, accennando alla scrivania che portava la targhetta con il suo nome.
“L’ho messa vicino alla finestra. Mi piace lì.”
“L’ultima volta che sei stata qui, ricordo che ti piaceva la vista da lì,” aggiunse, scrollando le spalle. Abbassò la mano e tornò alla propria sedia, sbuffando sommessamente mentre vi si accomodava.
“Va tutto bene?” gli chiese Adele.
Robert annuì, facendo un gesto con la mano come a voler cacciare via altre simili domande. “Si, certo. Le vecchie ossa non si muovono come un tempo, quindi temo che non sarò sul campo con te.”
Adele annuì evasiva. “Me l’ero immaginato. Ad ogni modo, abbiamo bisogno di qualcuno che tenga le fila delle cose da qui.”
Robert non stava più sorridendo. Tutt’a un tratto il suo sguardo sembrava duro.
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