Jessie era sorpresa dal proprio nervosismo.
Andava raramente al secondo piano della centrale, che veniva usato per lo più come archivio e per gli uffici amministrativi. In effetti, mentre percorreva il lungo corridoio, non incontrò anima viva.
Si fermò davanti alla porta del piccolo ufficio contrassegnato con la semplice targa ‘G. Moses’ e bussò timidamente. Sentì un movimento di carte all’interno e poi quello che sembrava lo scricchiolio di vecchie ginocchia che si stendevano. Il rumore le fece scorrere un brivido lungo la schiena. Un secondo dopo, Garland Moses aprì la porta.
“Ho perso,” disse con la sua familiare voce roca quando la vide.
“Perso che cosa?” chiese Jessie sentendo la pressione sanguigna che improvvisamente aumentava.
“Avevo fatto una scommessa contro me stesso se saresti venuta a tormentarmi per la prima volta prima o dopo mezzogiorno. Sono le undici e cinquantasei, quindi ho perso. Devo a me stesso dieci dollari.”
Jessie fu sollevata che la stesse solo prendendo in giro, permettendole un momento di respiro prima di rispondergli.
“Beh, speriamo che tu sia veloce a pagare. Ho sentito che i tuoi metodi di riscossione debiti sono piuttosto rudi.”
“Non puoi neanche immaginare,” le disse Garland, rivolgendole qualcosa di molto simile a un sorriso. “Diciamo solo che c’è coinvolto anche l’utilizzo forzato di Metamucil.”
“Carino,” commentò Jessie con una risatina. “Quindi, per quanto dovrò ancora parlare educatamente della tua consueta routine prima di poter ricevere aggiornamenti sulla situazione?”
Garland fece un altro mezzo sorriso. Sembrava essere diventata un’abitudine.
“Entra,” le disse, spostandosi di lato.
Jessie fece un passo nell’ufficio prima di rendersi conto di non poterne fare uno di più senza andare a sbattere contro la sua scrivania.
“Pensavo che la gente parlasse con sarcasmo, ma questo era realmente uno sgabuzzino, vero?”
“Non mi serve un sacco di spazio,” le rispose, chiudendo la porta e passandole accanto per andare a prendere posto nella sedia dall’altra parte del piccolo tavolo. Oltre a questo, c’era una sola sedia per gli ospiti, una lampada da scrivania e un piccolo schedario. Per il resto la stanza era vuota.
“Immagino che tu non venga mai sommerso dalle carte, dato che ti assumi solo pochi casi all’anno.”
“Mi è sempre piaciuto ridurre al minimo le scartoffie, anche quando lavoravo a pieno regime. Una scrivania intasata corrisponde a una mente intasata.”
“Confucio?” gli chiese Jessie scherzosa.
“No, Moses, ma non quello della Bibbia,” le rispose. Prima che lei potesse ribattere, proseguì. “Passiamo quindi al tuo caso.”
“Sì?”
“Non ho niente.
“Cosa?” gli chiese lei incredula.
Lui parve indifferente davanti alla sua reazione.
“La verità è che non ci ho ancora neanche provato.”
“Perché no?” chiese Jessie.
“Pensaci, Hunt,” le disse con pazienza. “Non è che posso andare così all’ufficio locale dell’FBI, farci un giretto dentro e chiedere agli agenti incaricati come stanno andando le loro indagini, soprattutto non lo stesso giorno in cui la profiler più collegata a Crutchfield torna al lavoro. Quello che sto facendo apparirebbe ovvio. Chiuderebbero le serrande. Tu finiresti nei guai. E io perderei il mio status ufficiale di ‘celeberrimo ed emerito’. Non va mica bene.”
“Lo fai sembrare impossibile,” protestò Jessie. “Indipendentemente da come li approcci, sarebbero comunque in guardia.”
“Non necessariamente, soprattutto se capita che mi stia godendo il pranzo in un posto che so essere frequentato da loro. E se loro si siedono con me per la questione del ‘celeberrimo ed emerito’, magari poi si mettono a parlare. Magari vogliono fare colpo sul vecchio e spifferano un po’ di più di quanto dovrebbero. Magari io sembro disinteressato e loro mi dicono ancora di più, giusto per dar prova della loro tempra. Alla gente piace fare così quando mi sta attorno.”
“Per il tuo status di ‘celeberrimo ed emerito’,” ripeté Jessie.
“Ora stai iniziando a capire,” le disse. “Ma nessuno mi dirà una parola se salto fuori e chiedo direttamente. Sono agenti dell’FBI, non bambini di seconda elementare.”
“Quindi perché non sei andato a pranzo?” insistette Jessie.
“Perché loro non vanno mai in questo posto prima dell’una. Per questo ho chiamato il proprietario e gli ho detto di tenermi un tavolo per le dodici e quarantacinque. Un tavolino in fondo, con un po’ di privacy e spazio per tre persone.”
“L’hai già fatto?”
“Sì.”
“Scusa,” disse Jessie, sinceramente impressionata. “Non avrei dovuto saltarti alla gola così. È solo che Hannah è là fuori e Dio solo sa cosa le sta capitando. Ti ho visto qui tranquillo e mi sono infervorata. Non avrei dovuto dare niente per scontato.”
“Lo apprezzo, Hunt. E non biasimarti. Con un vecchio come me, ti si può perdonare per aver pensato che mi sia dimenticato della nostra chiacchierata di questa mattina. Ma posso darti un piccolo consiglio?”
“Certo,” gli disse lei.
“Devi allentare un po’ la presa.”
Jessie annuì.
“È davvero dura per me,” ammise.
“Capisco,” le rispose. “Sono stato così io stesso a lungo. Ma il fatto è che con quello che facciamo ci sarà sempre qualche pazzo là fuori. Ci sarà sempre una vittima in pericolo. Ci sarà sempre un orologio che scandisce il tempo. Ma se tu tieni il piede schiacciato sull’acceleratore per tutto il tempo, vai a sbattere. È inevitabile. E poi non vali più niente.”
Jessie annuì. Tutto quello che stava dicendo aveva senso. Prima che potesse confermarglielo, lui continuò.
“So che non è facile, soprattutto adesso, quando la persona a rischio è la tua sorellastra. Ma a volte devi premere il freno. Devi trovare un qualche equilibrio nella tua vita. Altrimenti ti bruci. E persone che avresti potuto salvare moriranno. Non sto dicendo che non devi lavorare sodo. E non sto dicendo che dovresti fregartene. Ma devi trovare quella linea dove puoi fare questo lavoro ed essere comunque un essere umano funzionante. Altrimenti sarai infelice. Sai cosa intendo dire?”
Jessie si sentiva come se non avesse mai capito niente in modo migliore di così in vita sua.
“Sì,” si limitò a dire.
“Bene,” le rispose lui. “Allora sparisci dal mio ufficio. Devo fare un pisolino prima di pranzo.”
E con quelle parole di saggezza ancora nelle orecchie, Jessie lo lasciò al suo riposo.
Hannah Dorsey ricordò a se stessa che non era ancora morta.
Poteva anche apparire ovvio, ma una settimana fa a quest’ora non avrebbe potuto esserne così sicura. E ogni minuto che era in vita, era una possibilità in più. Almeno questo era ciò che continuava a ripetersi.
Sapeva che era più o meno mezzogiorno, perché vedeva dove il fascio di luce che filtrava dalla finestra arrivava a colpire il pavimento dello scantinato in cui era rinchiusa. Per un po’ aveva pensato che fossero usciti dalla California, perché lì non aveva mai visto uno scantinato prima d’ora.
Ma l’uomo – le aveva detto di chiamarlo Bolton – le aveva spiegato che il precedente proprietario era un immigrato dalla costa orientale, che aveva richiesto che gli venisse costruito un interrato nella sua casa sud-californiana, anche se a livello architettonico non aveva molto senso.
Bolton le aveva spiegato un sacco di cose.
Nelle prime ore dopo aver ucciso i suoi genitori affidatari e averla drogata e rapita, non aveva parlato poi tanto. In parte perché Hannah era troppo frastornata per poterlo capire, inizialmente. Dopodiché erano state le sue grida di panico a impedire ogni conversazione.
Ma dopo circa diciotto ore, era diventata afona a forza di urlare. Oltretutto, era talmente piena di paura e carica di adrenalina e confusione, che ascoltare la voce dell’uomo, con quel suo accento meridionale, era diventato quasi lenitivo. Se parlava, significava che non stava uccidendo. Quindi lei era felice che lui continuasse a blaterare.
Immaginava che sarebbe presto arrivato a fare una chiacchierata. Le portava sempre il pranzo attorno all’ora in cui la luce che entrava dalla piccola finestra colpiva il centro della stanza, e che lei pensava essere appunto mezzogiorno. Aveva capito qualche altra cosa nella settimana che aveva trascorso lì.
Prima di tutto sapeva che era passata più o meno una settimana perché era capace di fare ogni giorno un segno sul palo di legno a cui era incatenata, usando il cucchiaio che lui le aveva lasciato. In effetti era piuttosto sicura che fosse martedì. Sapeva anche che si trovavano in un posto isolato. Altrimenti Bolton l’avrebbe imbavagliata, o almeno avrebbe sbarrato la finestrella che le offriva quel brandello di luce.
Chiaramente non era preoccupato che qualcuno la sentisse chiamare aiuto, o spaccasse la finestra e la vedesse là sotto. E poi non aveva mai sentito una sola auto passare lì vicino, né un aereo volare o un allarme risuonare in lontananza.
Di notte, attraverso il vetro sporco di terra, era capace di vedere una luce lampeggiante rosa e blu in lontananza che proveniva dall’insegna di un locale chiamato Bare Essence. Lo stile dell’insegna suggeriva che si trattasse probabilmente di uno strip club. Ma dato che lei non si considerava un’esperta in materia, l’informazione lasciava il tempo che trovava.
Era anche piuttosto certa che lui non la volesse morta. Non per una mancanza di volontà di ucciderla. Ancora nella casa dei suoi genitori affidatari, prima di drogarla, ma dopo averla imbavagliata e legata, l’aveva portata tranquillamente in salotto e l’aveva fatta sedere nell’angolo in modo che potesse vedere mentre li assassinava.
Non l’aveva fatto di soppiatto. In effetti aveva dimostrato una certa leggerezza in quel massacro. Il padre affidatario era addormentato nella sua poltrona e la madre stava seduta sul divanetto accanto, intenta a guardare la TV.
Dato che non erano rivolti verso di lui, gli era bastato andare in cucina e tornarne fuori con due coltelli, uno di tipo più piccolo e seghettato, l’altro grosso e con la lama liscia. Aveva fatto un leggero occhiolino ad Hannah prima di fare il giro dietro alla coppia, mettendosi a sedere accanto alla madre affidataria, una donna poco appariscente, con i capelli grigi ma comunque ordinata e ben curata che si chiamava Caryn.
Caryn doveva aver pensato che fosse Hannah e si era girata a guardare solo quando era partita la pubblicità. Quando aveva visto lo strano uomo che, seduto accanto a lei, le sorrideva con un coltello in mano, aveva aperto la bocca per gridare. Era stato a quel punto che lui le aveva piantato la lama nella gola.
Ne era uscito uno strano suono gorgogliante, come di un palloncino fatto sgonfiare sotto all’acqua corrente. Il suo padre affidatario, Clint, che non era male come persona, ma partecipava all’affidamento solo per fare piacere alla moglie, si era un po’ mosso sulla sua poltrona, senza però svegliarsi.
Mentre il sangue di Caryn spruzzava a fiotti nel salotto, in parte finendo addosso a Bolton stesso, lui si era alzato e si era portato sopra a Clint. L’uomo non aveva reagito quando l’assassino aveva afferrato il telecomando e aveva iniziato ad alzare il volume al punto che Clint non potesse evitare di svegliarsi.
“Troppo alto,” aveva mormorato con tono irritato.
No ricevendo alcuna risposta, l’uomo si era strofinato gli occhi e aveva guardato lo schermo. Solo allora si era accorto di non poterlo vedere perché aveva davanti un uomo basso e traccagnotto con i capelli castani e radi e il doppio-mento. Bolton gli sorrideva, mostrando denti che avevano un disperato bisogno di intervento odontoiatrico, dato che molti stavano piegati a diverse angolazioni. I suoi intensi occhi castani non battevano ciglio.
Poi, come se la campanella della partenza avesse risuonato a una corsa di cavalli, si era lanciato in avanti e aveva piantato il coltello più grosso in mezzo al petto di Clint. Hannah non poteva vedere il volto del padre affidatario, ma solo la sua schiena mentre il corpo si irrigidiva un momento e poi si rilassava nuovamente indietro sulla poltrona. Non emise un singolo suono.
Bolton poi si era voltato a guardarla e aveva scrollato le spalle come a dire ‘Pensavo peggio’.
Hannah sapeva che avrebbe dovuto provare una paura folle. Ed era certa che poi qualche reazione sarebbe arrivata. Ma in quel momento, subito dopo il massacro di Caryn e Clint, non aveva fatto nulla. Avrebbe voluto poterlo fare, ma semplicemente non ce l’aveva dentro, non dopo tutto il resto.
Solo due mesi prima aveva vissuto qualcosa di ugualmente traumatico. Lei e i suoi genitori adottivi erano stati rapiti dalla loro casa nella San Fernando Valley e trasportati in una grande villa nei pressi del centro di Los Angeles. Quella volta il colpevole era stato un uomo più vecchio, probabilmente sui cinquant’anni, ed era stato molto meno scherzoso. Più tardi avrebbe appreso che il suo nome era Xander Thurman e che era un noto serial killer.
Ma al tempo, tutto quello che sapeva era di essere stata portata in questa strana casa da quello strano uomo. L’aveva legata a una sedia e l’aveva costretta a guardare mentre procedeva a torturare i suoi genitori adottivi.
Si era poi brevemente assentato, per tornare infine a concludere ciò che aveva cominciato. Poi una donna – Hannah aveva scoperto in seguito che si trattava di una profiler criminale di nome Jessie Hunt – era arrivata in quella casa, apparentemente cercandolo. Lui l’aveva sorpresa e aggredita, stendendola al tappeto.
Mentre era priva di conoscenza, lui le aveva legato le braccia a uno dei travi del soffitto. Quando era rinvenuta, si era messo a torturare anche lei. I due si erano poi lanciati in un feroce botta e risposta che Hannah per lo più non riusciva a comprendere. Alla fine la donna era scaltramente riuscita ad avere la meglio. Ne era conseguita una lotta serrata che si era conclusa con la morte dell’uomo e con la donna ridotta in uno stato pietoso.
Hannah era riuscita a liberarsi e a chiamare aiuto. Non ricordava molto della notte successiva, se non che gli addetti al pronto intervento avevano dovuto sedarla perché aveva iniziato a perdere il controllo. Quando si era svegliata, si era ritrovata in un letto d’ospedale. Dopo essere stata interrogata da diversi detective, era stata mandata per breve tempo in una casa famiglia, per passare poi a vivere con Caryn e Clint.
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