ORA E PER SEMPRE
(LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR—LIBRO 1)
S O P H I E L O V E
Sophie Love
Fan da tutta la vita dei romanzi d’amore, Sophie Love è felice di presentare la sua serie di debutto: ORA E PER SEMPRE (LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR—LIBRO 1). Visita il suo sito internet www.sophieloveauthor.com per scrivere a Sophie, entrare a far parte della mailing list, ricevere e-book gratis ed essere sempre al corrente delle ultime novità!
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INDICE
Emily fece scorrere la mani lungo la seta nera del vestito, distendendone le pieghe per quella che doveva essere la centesima volta, quella sera.
“Sembri nervosa,” disse Ben. “Hai appena toccato la cena.”
Scoccò un’occhiata al pollo che per metà aveva lasciato nel piatto, e poi risollevò lo sguardo verso Ben, che le sedeva di fronte a una tavola meravigliosamente imbandita, con il viso illuminato dalla luce della candela. Per il loro settimo anniversario, l’aveva portata nel ristorante più romantico di New York.
Ma certo che era nervosa.
Soprattutto visto che la scatolina di Tiffany che aveva trovato nascosta nel cassetto dei calzini settimane prima non c’era più quando aveva controllato quella sera. Era sicura che quella sarebbe stata la sera in cui finalmente le avrebbe chiesto di sposarlo.
Pensarci le faceva battere forte il cuore dalla trepidazione.
“È solo che non ho molta fame,” rispose.
“Oh,” disse Ben, un po’ perplesso. “Quindi non vuoi il dolce? Io ho messo gli occhi sulla mousse al caramello.”
Il dolce proprio non lo voleva, ma d’un tratto le venne il timore che forse Ben avesse nascosto l’anello nella mousse. Sarebbe stata una proposta di matrimonio stucchevole, ma a questo punto le sarebbe andata bene qualsiasi cosa. Dire che Ben aveva paura di impegnarsi era minimizzare. Gli ci erano voluti due anni di relazione per lasciarle tenere uno spazzolino nel suo appartamento – e quattro per farla trasferire da lui.
Se lei introduceva l’argomento bambini, lui diventava bianco come un lenzuolo.
“Ordina pure la mousse se vuoi,” disse. “Io ho ancora il mio bicchiere di vino.”
Ben alzò le spalle e poi chiamò il cameriere, che portò via veloce il piatto vuoto e il mezzo pollo di Emily.
Ben allungò le mani e prese quelle di Emily nelle sue.
“Ti ho detto che sei bellissima stasera?” chiese.
“Non ancora,” rispose lei, sorridendo maliziosamente.
Sorrise anche lui. “Allora, sei bellissima.”
Poi infilò una mano in tasca.
Il cuore di Emily parve fermarsi. Ecco. Stava accadendo davvero. Tutti quegli anni di angoscia, di pazienza da monaco buddista, stavano finalmente per ripagarla. Stava per provare a sua madre che era in errore, sua madre che sembrava divertirsi a dirle che non sarebbe mai riuscita a far percorrere la navata a un uomo come Ben. Per non parlare della sua migliore amica, Amy, che aveva di recente sviluppato la mania dopo un bicchiere di vino di troppo di mettersi a implorare Emily di non sprecare altro tempo con Ben perché trentacinque anni non erano assolutamente “troppi per trovare il vero amore.”
Deglutì mentre Ben tirava fuori la scatolina di Tiffany dalla tasca e la faceva scivolare sulla tavola verso di lei.
“Che cos’è?” riuscì a chiedere.
“Aprila,” rispose con un largo sorriso.
Non si era messo in ginocchio, notò Emily, ma andava bene comunque. Non le serviva una proposta tradizionale. Le serviva un anello. Qualunque anello sarebbe andato bene.
Prese la scatolina, la aprì – e poi si accigliò.
“Cosa… diavolo…?” balbettò.
La guardò sotto choc. Era una bottiglia da trenta millimetri di profumo.
Ben sorrise, come estasiato dalla sua opera.
“Non sapevo che vendessero anche profumi,” rispose Ben. “Pensavo che vendessero solo gioielleria troppo costosa. Vuoi che te lo metta?”
Improvvisamente incapace di contenere le proprie emozioni, Emily scoppiò a piangere. Tutte le sue speranze andarono in pezzi. Si sentiva un’idiota anche solo per essersi permessa di pensare che quella sera avrebbe potuto chiederle di sposarlo.
“Perché piangi?” chiese Ben, corrucciato, improvvisamente addolorato. “La gente ci guarda.”
“Avevo pensato…” balbettò Emily, sfiorando con lo sguardo la tovaglia, “con il ristorante, e visto che era il nostro anniversario…” Era incapace a tirar fuori le parole.
“Sì,” disse Ben freddamente. “È il nostro anniversario e io ti ho preso un regalo. Scusami se non è abbastanza bello, ma tu non me l’hai neanche comprato.”
“Avevo pensato che mi avresti chiesto di sposarti!” urlò alla fine Emily, buttando il tovagliolo sulla tavola.
Nella sala il mormorio si zittì quando le persone smisero di mangiare per voltarsi a fissarla. A lei non importava più.
Gli occhi di Ben si spalancarono dalla paura. Sembrava anche più spaventato di quando lei parlava della possibilità di mettere su famiglia.
“Perché ti vuoi sposare?” chiese.
Emily venne colta da un momento di chiarezza. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta. Ben non sarebbe mai cambiato. Non si sarebbe mai impegnato. Sua madre, Amy, avevano avuto entrambe ragione. Aveva sprecato anni in attesa di qualcosa che ovviamente non sarebbe accaduto, e quella minuscola bottiglietta di profumo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
“È finita,” disse Emily, senza fiato, gli occhi improvvisamente asciutti. “È davvero finita.”
“Sei ubriaca?” gridò Ben, incredulo. “Prima vuoi sposarti, e adesso vuoi rompere?”
“Non sono ubriaca,” disse Emily. “Solo che non sono più cieca. Tutto questo – io e te – non è mai stata una cosa buona.” Si alzò, gettando il tovagliolo sulla sedia. “Me ne vado da casa tua,” disse. “Per stanotte starò da Amy, e domani verrò a prendere la mia roba.”
“Emily,” disse Ben, cercando di toccarla. “Possiamo parlarne, per favore?”
“Perché?” replicò. “Così puoi convincermi ad aspettare altri sette anni prima di comprarci una casa nostra? E altri dieci prima di avere un conto in banca in comune? Diciassette anni prima che tu possa anche solo considerare l’idea di prendere un gatto insieme?”
“Per favore,” diceva Ben sottovoce, guardando il cameriere che si avvicinava col dolce. “Stai facendo una scenata.”
Emily sapeva di fare una scenata, ma non le importava. Non avrebbe cambiato idea.
“Non c’è nient’altro di cui parlare,” disse. “È finita. Goditi la tua mousse!”
E con queste ultime parole, si precipitò fuori dal ristorante.
Emily fissava la tastiera, desiderando che le dita si muovessero, che facessero qualcosa, qualsiasi cosa. Apparve un’altra email nella sua casella di posta, e la guardò con aria vuota. Le chiacchiere dell’ufficio attorno a lei le entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Non riusciva a concentrarsi. Si sentiva stordita. La nottata completamente in bianco che aveva passato sul bitorzoluto divano di Amy non migliorava di molto la situazione.
Era al lavoro da un’ora intera ma non era riuscita a fare molto altro che accendere il computer e bere una tazza di caffè. Aveva la mente del tutto consumata dai ricordi della sera precedente. Il viso di Ben continuava a tornarle in mente. Si sentiva spaventata ogni volta che riviveva quella terribile serata.
Il telefono si illuminò, guardò lo schermo e vide il nome di Ben che lampeggiava per l’ennesima volta. Chiamava, ancora. Emily non aveva risposto a una sola delle sua telefonate. Che cosa c’era da dire adesso? Aveva avuto sette anni per decidere se volesse stare con lei o meno – un tentativo dell’ultimo minuto per salvare la situazione non sarebbe servito adesso.
Squillò il telefono dell’ufficio e lei fece un balzo sulla sedia, poi lo afferrò.
“Pronto?”
“Ciao, Emily, sono Stacey del quindicesimo piano. Ho qui un appunto che dice che saresti venuta alla riunione di stamattina e volevo sapere perché non ti sei presentata.”
“CAZZO!” urlò Emily, buttando giù il telefono. Si era completamente dimenticata della riunione.
Saltò su dalla scrivania e attraversò di corsa l’ufficio fino all’ascensore. La sua agitazione sembrava divertire i colleghi, che si misero a bisbigliare come bambini scemi. Quando raggiunse l’ascensore, schiacciò il palmo della mano contro il bottone.
“Muoviti, muoviti, muoviti!”
Ci volle un’eternità, ma alla fine l’ascensore arrivò. Quando le porte si aprirono, Emily si precipitò fuori solo per scontrarsi con qualcuno che stava arrivando. Mentre indietreggiava, senza fiato, si accorse che la persona con cui si era scontrata era il suo capo, Izelda.
“Mi scusi tanto,” balbettò Emily.
Izelda la squadrò da capo a piedi. “Per cosa, esattamente? Per essermi venuta addosso o per aver saltato la riunione?”
“Tutte e due,” rispose Emily. “Ci stavo andando adesso. Mi è completamente passata di mente.”
Sentiva ogni singolo occhio dell’ufficio puntato sulla schiena. L’ultima cosa di cui aveva bisogno adesso era una dose di umiliazione pubblica, qualcosa che Izelda amava molto dispensare.
“Ce l’ha un calendario?” disse Izelda freddamente, incrociando le braccia.
“Sì.”
“E lo sa come funziona? Come ci si scrive sopra?”
Dietro di lei, Emily riusciva a sentire gli altri reprimere le risate. Il suo primo istinto fu di appassire come un fiore. Essere presa in giro davanti a un pubblico era la sua idea di incubo. Ma proprio come al ristorante la sera precedente, uno strano senso di chiarezza la assalì. Izelda non era un’autorità da ammirare per forza e ai cui capricci adattarsi. Era solo una donna amareggiata che sfogava la rabbia su chi poteva. E quei colleghi che sparlavano non avevano nessuna importanza.
Un’improvvisa ondata di consapevolezza la inondò. Ben non era l’unica cosa che non le piaceva della sua vita. Odiava anche il suo lavoro. Quella gente, quell’ufficio, Izelda. Era bloccata lì da anni, così come era rimasta bloccata con Ben. E non aveva più intenzione di sopportarlo.
“Izelda,” disse Emily, chiamando il suo capo per nome per la prima volta, “Sarò sincera. Non sono venuta alla riunione, mi è sfuggito di mente. Non è una tragedia.”
Izelda la guardò torva.
“Come si permette!” sbottò. “La farò rimanere inchiodata alla scrivania fino a mezzanotte per il prossimo mese finché non avrà imparato che significa essere sollecita!”
Con quelle parole, Izelda la sfiorò passando, spingendole la spalla, come per andarsene infuriata, con lo sguardo che diceva che la questione era chiusa.
Ma quello di Emily diceva altrimenti.
Emily la raggiunse e la afferrò per la spalla, fermandola.
Izelda si voltò e le fece una smorfia, scostando le mani di Emily come se fosse stata morsa da un serpente.
Ma Emily non cedette.
“Non avevo finito,” continuò Emily, tenendo la voce completamente calma. “La tragedia è questo posto. Sei tu. È questo stupido, insignificante, alienante lavoro.”
“Prego?” urlò Izelda, il viso rosso di rabbia.
“Mi hai sentita,” rispose Emily. “A dire il vero, credo proprio che tutti mi abbiano sentita.”
Emily guardò i colleghi, che la fissavano di rimando, sbalorditi. Nessuno si aspettava che la tranquilla e accondiscendente Emily scattasse così. Le venne in mente che Ben le aveva detto che stava facendo “una scenata” la sera precedente. Ed ecco che ne faceva un’altra. Solo che questa volta si stava divertendo.
“Puoi prendere il tuo lavoro, Izelda,” aggiunse Emily, “e ficcartelo su per il culo.”
Poteva praticamente sentirli rantolare dietro di lei.
Spintonò via Izelda per infilarsi in ascensore, poi ruotò sui talloni. Premette il pulsante del piano terra per quella che, come realizzò con assoluto sollievo, sarebbe stata l’ultima volta della sua vita, poi guardò la scena dei suoi scioccati colleghi che la fissavano mentre le porte si chiudevano e li lasciavano fuori. Sospirò profondamente, sentendosi più libera e più leggera di quanto si fosse mai sentita prima.
*
Emily corse su per le scale che portavano al suo appartamento, accorgendosi che quello non era il suo appartamento – non lo era mai stato. Aveva sempre sentito di vivere in casa di Ben, di dover essere il più piccola e il più discreta possibile. Rovistò in cerca delle chiavi, grata che Ben fosse al lavoro e di non dover averci a che fare.
Entrò e guardò la casa con occhi diversi. Niente era di suo gusto lì. Tutto sembrava aver preso un altro significato: l’orribile divano per cui lei e Ben avevano litigato al momento dell’acquisto (litigio che aveva vinto lui); lo stupido tavolino da caffè che lei voleva buttare via perché una delle gambe era più corta delle altre e traballava sempre (ma al quale Ben era legato da “ragioni sentimentali” e che quindi era rimasto); l’enorme tv che era costata decisamente troppo e che occupava troppo spazio (ma di cui Ben aveva insistito di aver bisogno per guardare lo sport perché era “l’unica cosa” che lo rilassava). Afferrò un paio di libri dallo scaffale, notando che i suoi romanzi rosa erano stati relegati nell’ombra dello scaffale più basso (Ben si preoccupava sempre che i suoi amici lo avrebbero giudicato poco intellettuale se avessero visto dei romanzi rosa sullo scaffale – lui preferiva i saggi accademici e filosofici, anche se sembrava non leggerli mai).
Stava guardando al di sopra delle fotografie sulla mensola per vedere se ci fosse qualcosa che valesse la pena prendere, quando la colpì il fatto che in ogni sua foto lei era insieme alla famiglia di Ben. Al compleanno della nipote di Ben, al matrimonio della sorella di Ben. Non c’era una sola fotografia di lei con sua mamma, l’unica persona della famiglia di Emily, e tanto meno di Ben con loro due. D’un tratto fu colpita dal fatto che era una straniera nella sua stessa vita. Aveva seguito la strada di qualcun altro per anni invece di costruirsi la sua.
Prese d’assalto l’appartamento e finì in bagno. Qui c’erano le sole cose di cui a lei importava davvero – i suoi prodotti per il bagno e i trucchi. Ma anche questi costituivano un problema per Ben. Si era sempre lamentato di quanti prodotti avesse, rammaricandosi per lo spreco di soldi.
“Sono i miei soldi che spreco!” urlò Emily al suo riflesso nello specchio buttando tutti i suoi averi in una capiente borsa.
Sapeva di avere l’aria di una pazza, a sfrecciare su e giù così per il bagno gettando bottiglie mezze vuote di shampoo nella borsa, ma non le importava. La sua vita con Ben era stata solo una bugia, e voleva uscirne il più presto possibile.
Poi corse nella camera accanto e afferrò la sua valigia da sotto il letto. La riempì velocemente con tutti i vestiti e le scarpe. Finito di raccogliere le sue cose, portò tutto fuori in strada. Poi, come gesto simbolico finale, tornò nell’appartamento e pose la sua chiave sul tavolino da caffè “sentimentale” di Ben, poi uscì, per non tornare mai più.
Fu solo lì in piedi sul cordolo del marciapiede che Emily prese coscienza di ciò che aveva fatto. Aveva perso il lavoro e la casa nello giro di poche ore. Diventare single era una cosa, ma perdere tutta la sua vita era decisamente un’altra.
Piccoli palpiti di panico cominciarono a percorrerla. Le mani le tremavano mentre tirava fuori il cellulare e componeva il numero di Amy.
“Ehi, che c’è?” chiese Amy.
“Ho fatto una cosa stupida,” rispose Emily.
“Dimmi…” la sollecitò a continuare Amy.
“Ho lasciato il lavoro.”
Sentì Amy sospirare dall’altra parte della cornetta.
“Oh, grazie a Dio,” disse la voce della sua amica. “Pensavo che mi avresti detto di essere tornata con Ben.”
“No, no, tutto il contrario. Ho fatto le valigie e ho lasciato la casa. Sto qui per la strada come una barbona.”
Amy cominciò a ridere. “Mi hai dipinto proprio una bella scena.”
“Non è divertente!” replicò Emily, più spaventata che mai. “Cosa faccio adesso? Ho lasciato il lavoro. Non riuscirò a trovare un appartamento senza un lavoro!”
“Devi ammettere che un po’ divertente lo è,” rispose Amy sogghignando. “Porta tutto qui,” aggiunse con nonchalance. “Lo sai che puoi restare da me finché non sistemi le cose.”
Ma Emily non voleva. Praticamente aveva trascorso anni della sua vita vivendo in casa di qualcun altro, costretta a sentirsi un’ospite nella sua stessa casa, come se Ben le stesse facendo un favore ad averla intorno. Non voleva più vivere così. Aveva bisogno di costruirsi la sua vita, di stare in piedi da sola.
“Apprezzo l’offerta,” disse Emily, “ma devo occuparmi di me stessa per un po’.”
“Lo capisco,” rispose Amy. “E allora che fai? Lasci la città per un po’? Ti schiarisci le idee?”
Le fece venire in mente una cosa. Il padre di Emily aveva una casa nel Maine. Ci avevano trascorso le estati quando lei era piccola, ma era rimasta vuota da quando vent’anni prima era scomparso. Era vecchia, decisamente particolare, ed era stata fantastica a un certo punto, in una specie di modo storico; era più come un contorto Bed and Breakfast di cui suo padre non sapeva che farnese, che una casa.
All’epoca aveva un’aria appena passabile, ed Emily sapeva che non sarebbe stata presa bene adesso, dopo vent’anni di abbandono; e non le avrebbe dato la stessa sensazione di vuoto – non ora che non era più una bambina. Senza pensare che non si era proprio in estate. Era febbraio!
Eppure l’idea di trascorrere qualche giorno seduta sul portico, a guardare l’oceano, in un luogo che era suo (più o meno) all’improvviso le sembrò molto romantica. Lasciare New York per il weekend sarebbe stato un buon modo per chiarirsi le idee e cercare di decidere cosa fare dopo.
“Devo andare,” disse Emily.
“Aspetta,” rispose Amy. “Prima dimmi dove vai!”
Emily fece un respiro profondo.
“Vado nel Maine.”
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На этой странице вы можете прочитать онлайн книгу «Ora e per sempre», автора Sophie Love. Данная книга имеет возрастное ограничение 16+, относится к жанрам: «Современные любовные романы», «Зарубежные любовные романы». Произведение затрагивает такие темы, как «любовные отношения», «романтические отношения». Книга «Ora e per sempre» была издана в 2019 году. Приятного чтения!
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