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Strada senza uscita
Storia di due amori e un’amicizia
Роберто Борзеллино

© Роберто Борзеллино, 2022

ISBN 978-5-4493-1839-8

Created with Ridero smart publishing system

Роман на языке оригинала (итальянский)

Посвящается…

всем моим русскоязычным студентам.

Огромное спасибо.

CAPITOLO PRIMO

IL RISVEGLIO

Un rumore sordo e un colpo aprii gli occhi, un frenetico brusio arrivava dalla strada, ma era una lingua strana, dal forte accento, che inutilmente cercavo di capire, di tradurre. Forse stavo ancora sognando o era solo la mia mente che rifiutava il risveglio e s'inventava in modo strano per farmi capire che era meglio rimettersi a dormire. Fu solo un attimo è questo pensiero era già svanito: a quel tempo, in quelle condizioni, non avevo certamente il lusso di potermi riaddormentare. Potevo fare solo una cosa: alzarmi, raggiungere la cucina e preparare un buon caffè. Già il caffè, ma mentre cercavo di ricordare in quale direzione andare, sentivo ancora quelle voci giungere dalla strada, i toni diventano sempre più accesi, acuti; ecco, ora le distinguevo bene, sembravano due donne che litigavano in strada,

Con questo pensiero nella testa, svogliatamente, alzai dal letto e con lo sguardo cerca le pantofole: “Ah, eccone una e l'altra, quella maledetta, dove sarà finita?”, Probabilmente sarà nascosta da qualche parte, magari sarà finà un dispositivo mobile o più probabilmente sarà sotto il letto, in profondità, lì è più difficile raggiungerla, se non con l'aiuto di un bastone per tirarla via. Quella mattina il mio risveglio era stato interrotto bruscamente e certamente non aveva migliorato il mio cattivo umore. Seduto sul lato distruggi il letto, coi i piedi nudi sul pavimento, un piccolo brivido di freddo la mia pelle scossa e mi ha fatto alzare bruscamente, mentre il pensiero del caffè ”, con prepotenza, si era già fatto strada nella mia mente. Con una sola pantofola ai piedi, ciondolando come un vecchio zoppo,

Uno strano silenzio sembrava essersi impossessato dell’intero quartiere; non un lamento giungeva alle mie orecchie, come se tutt’intorno ogni rumore fosse improvvisamente ovattato. Istintivamente posai il mio sguardo sul grande orologio bianco appeso in alto, al centro del muro che, con le sue lancette nere, mi avvertiva che mancavano pochi minuti alle sette di mattina. Controvoglia mi affacciai alla finestra, facendo attenzione a spostare delicatamente la tendina per evitare di essere riconosciuto; abitavo pur sempre al primo piano e non era difficile notare il mio bel faccione italiano. La curiosità aveva preso il sopravvento e con lo sguardo cercai di individuare le due donne che quella mattina, con tanto frastuono, mi avevano inopportunamente sottratto al piacevole abbraccio di Morfeo.

La mia sorpresa fu grande: la strada era vuota, deserta e potei notare solo qualche ombra che si allontanava camminando velocemente, probabilmente per raggiungere la fermata del tram dall’altra parte del cortile. “Dove saranno finite quelle due matte” – ripetevo tra me e me – mentre il caffè espresso, con il suo profumo, aveva già inebriato tutta la cucina. Fu solo al primo sorso che mi sentii completamente sveglio e rinato; solo adesso cominciavo a capire perché non riuscivo a tradurre quelle frasi, quelle parole dall’accento così strano e tutto rapidamente divenne chiaro. Quelle donne parlavano in russo.

Ero a mille chilometri da casa, in un luogo lontano, sperduto, tra palazzoni di periferia tutti uguali, che potevo distinguere tra loro solo dal tono sfumato dei colori sulle facciate dei muri, che il tempo e il freddo dei gelidi inverni avevano sbiadito.

Ero seduto in cucina, con la tazzina del caffè ancora in mano e una profonda malinconia mi prendeva alla gola, mi stringeva al petto. Mi guardavo intorno ed ero circondato dalla carta da parati; ogni stanza di quell’appartamento era tappezzata da disegni orrendi, con colori appena abbozzati di un giallo tenue, senza nessuna grazia, classe o bellezza.

Sembrava che il tempo si fosse improvvisamente fermato agli anni sessanta e li fosse rimasto, immobile, legato profondamente al passato comunista. Solo adesso i miei ricordi riaffioravano prepotentemente e mille pensieri si affollavano feroci nella mia mente. Ero a Minsk in Bielorussia.

Ma perché ero finito in quel posto così lontano?”, “Cosa mi aveva spinto a partire e lasciare ogni cosa, i parenti, gli amici, un figlio?”.

Con lo sguardo perso sul fondo della tazzina seguivo una piccola goccia di caffè che scivolava lentamente lungo i bordi e all’improvviso vedevo scorrere davanti a me, come in un film, il fallimento di tutta una vita. Fin da piccolo avevo avuto un sogno da realizzare, un traguardo che già allora mi sembrava impossibile da raggiungere, come la vetta dell’Himalaya; già all’epoca mi sentivo fuori dal coro e alla classica domanda di genitori e parenti: “Cosa vuoi fare da grande?”, non rispondevo nel modo che tutti si aspettavano – da grande farò l’avvocato, il medico o l’ingegnere – ma, meno banalmente e con un misto di ingenuità e coraggio, rispondevo: “da grande farò lo scrittore di romanzi, per raccontare storie e inventare sempre nuovi personaggi”.

Non credevo di essere più intelligente dei ragazzi della mia età ma sentivo il desiderio di fare qualcosa di diverso dal “normale”, qualcosa per cui credevo di avere talento – scrivere libri – e questo per me era stato chiaro fin da subito.

Già in seconda elementare non erano sufficienti quattro pagine di quaderno per finire i temi d’italiano e, molto spesso, dopo aver ricevuto un bel dieci, venivo “costretto” dalla maestra a fare il giro delle altre classi dove, con mio grande disappunto e con un pizzico di vergogna, dovevo leggere quelle pagine, scandendo bene ogni frase ad alta voce affinché tutti potessero ascoltare i miei pensieri, le mie fantasie, i miei personaggi inventati.

Questa procedura si era ripetuta già troppe volte durante i miei primi anni di scuola e sentivo crescere dentro di me la ribellione e il fastidio di dover fare ogni volta tutti quei giri, andando di classe in classe. Sempre più spesso cercavo, con le scuse più varie e fantasiose, di sottrarmi a quella “tortura”, a quella violenza quasi fisica, ma non sempre ci riuscii. Dal confabulare delle maestre percepivo la loro ammirazione ed il loro stupore, mentre per me sembrava tutto eccessivo, quasi folle. All’epoca non si capacitavano di come un minuscolo bambino potesse esprimere così tanta energia espressiva, avere così tanta immaginazione e, cosa ancora più sconcertante per loro, non commettere alcun errore grammaticale.

Inutile dire che le prime volte avevo provato un grande senso di felicità e orgoglio, soprattutto pensando a mia madre, perché potevo raccontarle fin nei minimi particolari dell’esperienza vissuta a scuola e mostrarle il bel dieci stampato a penna sul fondo del foglio. In quelle occasioni potevo leggere sul suo volto tutta la sua gioia, come se dicesse con gli occhi “ho partorito un genio”. Ma con il tempo tutto divenne più difficile e complicato da sopportare, non ero certo il tipo di ragazzino a cui piaceva mettersi in mostra e se l’essere il primo della classe aveva accresciuto la mia “fama” con le ragazzine, dall’altro cominciavo a sentire il peso di dover essere sempre “all’altezza della situazione”, comporre e scrivere temi originali e, soprattutto, senza errori.

Purtroppo, già a quell’età, dovevo imparare, a mie spese, che nella vita reale anche i bambini possono essere molto crudeli e capii che non sempre è possibile dimostrare il proprio talento senza provocare invidie o gelosie o qualche forma di reazione o ritorsione. Ma così avvenne.

Ora i ricordi si facevano più nitidi nella mia mente e come in un sogno ad occhi aperti continuavo a rivivere quei momenti e potevo quasi sentire sulla mia pelle la dolce brezza del vento di primavera. Fu proprio durante quei giorni, all’uscita dalla scuola, che fui fermato da un piccolo gruppetto di altri bambini; erano tutti alunni delle classi superiori che, senza tanti giri di parole, mi minacciarono di smetterla di scrivere in quel modo così diverso e complicato. Mi spiegarono che le loro maestre li costringevano, quasi tutti i giorni, a esercitarsi con la “scrittura creativa” e tutti erano ormai stanchi di qual continuo scrivere. Avevano individuato nel sottoscritto la soluzione a tutti i loro problemi scolastici ed il loro unico desiderio era quello di tornare alla “normalità delle vecchie lezioni”. Se non avessi smesso di scrivere in quel modo sarei stato punito nel modo più crudele, mi avrebbero scaraventato in un pozzo profondo e fatto sbranare dai loro cani inferociti. Il più grande di loro, come promemoria, mi sferrò” violentemente un pugno sul naso affinché comprendessi che facevano veramente sul serio e che le loro non erano solo minacce a vuoto.

Da quel momento in poi le mie “creazioni letterarie” diminuirono di qualità e originalità e, qualche volta, le infarcivo di opportuni e grossolani errori di grammatica. In ogni caso facevo attenzione a non esagerare per evitare di essere scoperto e per mantenere un voto finale soddisfacente: il sette. Con questo “piccolo trucco” e con mio grande sollievo finirono anche le “morbose” attenzioni delle mie maestre e dopo qualche tempo tutto sembrò tornare alla normalità. Dovetti subire un ultima umiliazione il giorno in cui le maestre convocarono a scuola i miei genitori, ma questa volta per parlare della mia “regressione scolastica” e non più dei miei successi. Ricordavo ancora il volto stupito di mia madre quando le confessarono della mia involuzione letteraria avvenuta in un lasso di tempo troppo breve.

Rapidamente mi adattai alla nuova situazione a scuola e nonostante provassi un forte contrasto di natura morale (mi sembrava di prendere in giro e di mentire alle persone che più amavo), non raccontai mai a nessuno quel mio segreto, neppure al mio amico più fidato, e fu sepolto, profondamente, dentro di me. Benché quella fosse stata la prima esperienza negativa della mia vita, in seguito avrei dovuto affrontare e risolvere bel altre situazioni, ancor più complicate e difficili.

Posai lentamente la tazzina di caffè nel lavandino provando ad allontanare dalla mia mente tutti quei ricordi ancora così spiacevoli e mi diressi, svogliatamente, verso la stanza da letto. Desideravo poter guardare nuovamente dalla finestra perché cercavo una nuova prospettiva, un modo migliore per poter distinguere tutte quelle persone che, a passo veloce, percorrevano le stradine che separavano tutti quei grandi palazzoni di cui potevo notare il loro aspetto cupo ma imperioso, la regolare monotonia con cui sembravano essere stati messi in fila, uno accanto all’altro, come dei bravi soldatini.

Era in queste rare occasioni che cercavo d’immaginare il viso e gli occhi delle donne che, come tante formichine, abitavano in quelle case tutte uguali. Potevo osservarle dalle loro finestre mentre, come ombre, si muovevano di continuo da una stanza all’altra, protette da tende bianche e trasparenti dagli occhi indiscreti dei vicini. Le immaginavo armeggiare con i fornelli della cucina, indaffarate a preparare la colazione per i loro figli e mariti. Dal portone vidi uscire una figura femminile che, con passo svelto, rinchiusa nel suo stretto cappotto per proteggersi dal freddo intenso e dal vento, si affrettò a raggiungere la fermata del tram.

Riflettevo e mi rendevo conto che, durante tutta la mia permanenza a Minsk, ancora non avevo conosciuto nessuno dei miei vicini, tranne quelle poche persone che la mia dolce e gentile padrona di casa mi aveva presentato. Tutte sembravano avere stampata sul viso quell’espressione triste e stanca di chi non ha più speranza di attendersi un futuro migliore dalla vita.

Alcune ragazze incontrate in centro mi avevano confidato il loro più grande desiderio: conoscere e sposare un uomo straniero, magari un uomo che, come me, le avrebbe portate a vivere in una bella città italiana in riva al mare. Adesso che anch’io mi trovavo in quel luogo desolato e con un futuro incerto, capivo quanto grande fosse il loro desiderio di andare in Italia e dai loro discorsi si intuiva l’amore per quel posto così lontano, ricco di storia, monumenti, dagli incantevoli panorami, con un ottimo clima e buonissimo cibo. Tutte cose che a Minsk non era possibile nemmeno lontanamente paragonare. Nonostante mi fossi recato in centro molte volte non avevo mai provato un brivido di piacere o un guizzo che avesse accesso dentro di me l’interesse per un parco, una statua o un teatro. Tutto sembrava piatto e insulso, come mangiare una pietanza senza condimento, ma la scelta di vivere in quel posto non era stata affatto casuale perché si sposava bene con il mio stato d’animo di allora e con la miseria della mia vita.

Ora non riuscivo più a fare a meno di pensare al mare, alla brezza che mi accarezzava ogni volta che passeggiavo sul lungomare di Salerno e dentro di me sentivo crescere impetuosamente il desiderio di tornare a casa, per ammirare quel colore intenso e azzurro tipico delle coste del sud Italia, dove anche d’inverno i raggi del sole riescono a scaldarti il cuore. Più restavo ancorato in quel posto e più cresceva in me la paura che sarei rimasto per sempre a Minsk, magari sepolto sotto quel freddo e gelido terreno, colpito da un infarto improvviso a causa dalla mia grande tristezza d’animo. Mi commuovevo spesso perché capivo che non avrei più rivisto i luoghi della mia infanzia, gli amici di un tempo e tutte le persone care, compreso il mio adorato figlio. Quel posto mi appariva come un deserto di ghiaccio, immenso e sconfinato, completamente aperto ed esposto a tutte le intemperie, con la costante presenza di un vento forte e gelido che soffiava e urlava perennemente sulle finestre delle case.

Ma non aveva senso lamentarsi contro la sorte perché avevo scelto volontariamente di venire a Minsk, senza alcuna costrizione. Desideravo solo un po’ tempo per rimettermi in sesto e avere la possibilità di ricominciare una nuova vita.

Capivo che quel nuovo giorno era iniziato in modo strano e forse per me era giunto il momento di tirare una lunga riga rossa sulla mia vita. Ormai avevo quasi cinquant’anni e, invece di diventare un romanziere di successo, mi ero trasformato in uno scrittore ombra, un ghost writer, pagato per scrivere articoli e storie, che poi sarebbero stati firmati da altri. Era un lavoro mal pagato e che non dava grandi soddisfazioni professionali e, di tanto in tanto, cercavo di arrotondare le misere entrate lavorando come correttore di bozze per alcune case editrici. In questo modo vedevo scorrere davanti ai miei occhi le parole scritte da altri, di quelli che si sentivano scrittori da sempre e che non avevano voluto abbandonare il loro sogno, che non avevano mollato di un centimetro. Più leggevo e correggevo quelle bozze e più mi rendevo conto di avere sprecato tanto tempo e tutto il mio talento rincorrendo i sogni degli altri, soprattutto quelli di mia madre.

Mi ero iscritto all’università proprio per fare contenti i miei genitori e scelsi la facoltà di legge perché tutti, amici e parenti, dicevano che avevo le qualità per diventare un bravo avvocato. Una volta entrato a far parte di quel mondo mi sentivo ogni giorno più depresso, come un pesce fuori dall’acqua; durante le udienze in tribunale mi divertivo a immaginare quei mie colleghi come squali affamati, pronti ad azzannare anche la madre pur di avere un nuovo cliente importante. Frequentando quelle aule di giustizia mi accorsi che non era la legge a trionfare, ma prevaleva sempre chi, con il tempo, era riuscito a farsi un nome o aveva stretto un rapporto confidenziale e di amicizia con il giudice di turno. Per anni mi ero sentito a disagio in quell’ambiente e avevo cercato un’occasione concreta per potermene allontanare, per liberarmi da tutto quello schifo. Ma ero frenato dal prendere quella decisione perché, nonostante avessi già trent’anni, vivevo ancora a casa con i miei genitori e quando li guardavo negli occhi vedevo la loro soddisfazione, il loro orgoglio. Allora ci ripensavo e rinchiudevo in un cassetto tutti i miei progetti di fuga dalla realtà.

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